Sono nato ad Ostia il 27 marzo 1915. Ho conseguito il brevetto di motorista civile d’aeromobile nel 1931 a Napoli e nel 1933 il brevetto di pilota civile di primo grado sull’Idro CA100 presso l’unica Scuola di Volo aperta in quel periodo in Italia e precisamente all’Aeroclub di Genova. Qui continuai con i voli di allenamento annuali volando contemporaneamente come motorista e secondo pilota sui Dornier della SANA, Società Anonima Navigazione Aerea con base ad Ostia. Nel ’36 mi arruolai in Aeronautica e fui inviato a Foggia dove conseguii il brevetto militare su Breda 25 e CR 20. Il 1° di agosto del 1936 fui assegnato al 4° Stormo di Gorizia. Mi feci raccomandare per andare a Gorizia ed infatti ci riuscii.Mi assegnarono alla 73^ Squadriglia, sotto la guida di Pezzè, di Renzi e di altri. Mi portarono su loro, cominciammo con la prima coppia e poi sempre avanti con gli allenamenti. Prima di volare sul CR32, provai doppio comando sul CR30 con il povero Corsi, e gli amici mi avevano detto: “Te la passi bene, vedrai quello che ti combina!”. Me l’ha combinata. Mi ha fatto fare il decollo, poi  mi ha detto: “Lascia la cloche”. Ha effettuato una serie di tonneau non so quanti, sul Carso, sul San Michele. Poi mi ha detto: “Andiamo a casa”. Mi ha fatto fare l’avvicinamento e l’atterraggio e poi mi ha battuto una mano sulla spalla dicendomi: “Vai, vai!”. Ho poi volato con Pezzè che mi ha autorizzato ad effettuare il passaggio sul CR32. A Gorizia conobbi Silvio Salvatori un toscano che aveva una fidanzata pure lei toscana. Durante un trasferimento a Roma con la pattuglia acrobatica per una manifestazione, mentre sorvoliamo la Toscana, si stacca dalla formazione per andare a fare una puntata sulla casa della fidanzata. Si abbassa troppo e si infila con il CR20 nella finestra dell’abitazione della ragazza. L’aereo finisce proprio dentro la casa mentre le ali rimangono di fuori e, cosa incredibile, non si fa nemmeno un graffio. E’ morto dopo la guerra. Volava con quegli aerei che irrorano i campi ed ha urtato nei cavi di una linea elettrica. Era un pilota straordinario, credo non ce ne siano stati molti come lui. Ricordo che faceva i tonneau sfiorando letteralmente gli hangar del 4° Stormo. Puntava sulla zona della 73^ Squadriglia, dove eravamo noi, verso i tre hangar vicino alla strada arrivando dall’Isonzo e sembrava ci finisse addosso. (Anche Ugo Corsi era eccezionale. Ah, Corsi, Corsi, Corsi, non ce ne sarà mai più uno uguale. Non ce ne sarà mai più uno come lui!. Sto criminale, decollava, riduceva motore e si metteva con la coda per terra che cosi’ non staccava e girava dentro l’aeroporto. Merna non è grande, lo sai, ma a lui bastava.)
Anche Ugo Corsi era eccezionale, non ce ne sarà mai più uno uguale. Spesso decollava, riduceva motore, si metteva con la coda per terra senza staccarsi dal suolo e girava dentro l’aeroporto non certamente grande ma a lui bastava. Non toccava terra, la sfiorava. Si sosteneva sul cuscino d’aria creato dall’elica sotto l’ala. Allora questa tecnica non si conosceva. Aveva una padronanza senza uguali nel’eseguire la vite: volava lungo l’Isonzo sui 400/500 metri ed improvvisamente entrava in vite. Lo si vedeva scendere girando e ci aspettavamo che terminasse la manovra ed invece continuava ad avvicinarsi sempre piu’ al terreno. Lo vedevamo sparire ancora con il muso basso dietro gli alberi dell’Isonzo e trattenavamo il respiro. Dopo un po’ ricompariva verso Savogna. Rimetteva l’aereo dalla vite nell’avvallamento dell’Isonzo non so a quanto, forse a 20 metri. Era talmente padrone dell’aeroplano che tutto gli veniva con una indifferenza e serenità eccezionale. Corsi era qualcosa di trascendentale, veramente!. Tanto bravo e tanto sfortunato. In Spagna dopo pochi voli verrà abbattuto e dovrà restare 13 mesi in prigionia.
Credimi, mi ha salvato la guerra. Mi è sempre piaciuto bere: il vino in quantità giuste, a pasto un bicchiere, due bicchieri, e quando capitava un cognacchino, un grappino, una graspa. Ma se fossi rimasto a Gorizia non mi sarei salvato più, non tanto dai colleghi ma dai borghesi. Uno di questi era Gianni Defilippo. Un goriziano, alto, lo chiamavano  “Gianni Flascutta (Fiaschetta). Il pullman  che dall’aeroporto ci portava a Gorizia fermava al bar “Alle Ali” e terminava la corsa in Piazza della Vittoria e ricordo che mi abbassavo, cercavo di non farmi vedere dagli amici che mi aspettavano e che inesorabilmente ti portavano in osteria. Ricordo Sergio Pitassi, aveva un negozio di abbigliamento. Erano tre o quattro fratelli, e lui aveva un bel negozio in Corso. Arrivato in piazza della Vittoria scendevo e andavo in cerca di qualche ragazza. Camminavo e mano, mano mi rinfrancavo quando improvvisamente: “Biffi, … Biffi!” Porca miseria sono rovinato!.”Beh, Biffi, Biffi andiamo a bere un tajut” Poi incontravi quell’altro e diventavamo cinque o sei come minimo. Insomma dopo un’ora ero sbronzo. Veramente sbronzo. E la serata era rovinata.
Intanto era iniziata la guerra in Spagna. Avevo solo 200 ore di volo ma feci comunque domanda. Mi dissero: “Ma tu sei matto”. Va bene, ero matto ma ci volevo andare. Infatti andai in Spagna, alle Baleari, dove ho totalizzato circa 300 ore di volo, tutte sul mare.
Nell’estate  del 1937, insieme ad alcuni colleghi piloti del 4^ Stormo di Gorizia, agli specialisti ed alcuni CR32, veniamo caricati su un treno per La Spezia dove ci imbarchiamo su una nave mercantile, destinazione Palma de Maiorca (Mallorca), Spagna. Dopo una sosta a Cagliari di uno o due giorni, dove trovo il tempo per alcuni bagni e tuffi dal ponte della nave, giungo all’aeroporto di Son San Juan, nelle Baleari. Qui oltre ai nostri CR32 ci sono anche gli S79 ed S81. Incontro subito il caro amico Ferrulli, un “buon” pilota oltre che un “bel” ragazzo. Il comandante e’ il tenente D’Agostinis. I colleghi mi raccontano di un divertente episodio, D’Agostinis qualche giorno prima del mio arrivo aveva abbattuto un Potez ed il pilota, salvatosi con il paracadute, arrivato a terra gridava “un buque, un buque!”, voleva una nave per scappare.D’Agostinis poco dopo il mio arrivo viene rimandato in Italia ed a me viene assegnata la sua tuta di volo, ci stavo dentro due volte!
Un giorno sono in pantaloncini ed improvvisamente c’e’ una partenza su allarme. Sull’ala del CR32 ero solito appoggiare i pantaloni, giubbotto e paracadute. Corro verso l’aereo, indosso il paracadute, non faccio in tempo ad indossare pantaloni e giubbotto che restano sull’ala. Durante la corsa di decollo il giubbotto vola via mentre i pantaloni si mettono meta’ sopra e meta’ sotto l’ala. Su Soller c’era la nostra contraerea ed era proibito passare perche’ avrebbero sparato a chiunque. Penso tra me “… io qua sopra ci passo tanto questi non c’azzeccano mai”. Agito le ali sperando che capiscano che sono uno dei loro ma cosi’ facendo i pantaloni si staccano dall’ala ed a terra cominciano a sparare ai pantaloni scatenando un putiferio.
Avevamo al campo un telefonista spagnolo di Bunol, un paese vicino, il giorno dopo mi dice:
“chi ha perso i pantaloni in volo su Soller?”. Rispondo:
 “io, perche?”
 “li hanno trovati, ma deve andare a prenderseli”
Cosi’ vado a Soller dove distillano un’anice eccezionale e passo delle simpatiche ore.
Dopo D’Agostinis arriva un nuovo comandante, il capitano Pratelli che vuole vedere i suoi piloti come “volano” e li invita a montare su un CR32 senza munizioni ed esibirsi. I piloti fanno a gara per partire per primi e far vedere quanto sono bravi.
Io dico a Ferrulli  “ … stai buono, aspetta che si consumi la benzina e che l’aereo diventi leggero …”. Ferrulli va in volo per penultimo ed io per ultimo.
Quando tocca a me, decollo, vado verso il mare, viro basso, basso, torno sul campo e faccio venti, dico venti, tonneau senza interruzione, uno dietro l’altro. Ovviamente i tonneau dovevano essere per forza perfettamente orizzontali altrimenti avrei toccato per terra. Ero talmente basso che all’ultimo tonneau mi trovai davanti un mulino a vento e lo evitai di un soffio. Alla fine i due piloti scelti da Pratelli saranno Ferrulli e Biffani!. Sono gli unici piloti provenienti da Gorizia!. Le differenze con i piloti provenienti da altri aeroporti, Rimini, Torino, ecc. sono enormi.
Un esempio: siamo a Gorizia ed un giorno ci vengono assegnati i CR42. Il pomeriggio facciamo il passaggio che consiste in un giro campo, decollo, atterraggio e nient’altro. Altro che ambientamento, stalli, ed altre manovre, o ce l’hai il “manico” o non ce l’hai e cambi mestiere. Al mattino successivo arriva Dentis da Torino che porta altri CR42 nuovi per il 4° Stormo. A mensa ci troviamo allo stesso tavolo, non ci conoscevamo prima ed ad un certo punto esclama:
“Biffi, questa mattina quando atterravo ho visto un CR42 che faceva un looping rovescio, ma chi era?”
gli dico:
“a che ora sei atterrato”
“alle undici”
“ero io!”
“ma quante ore hai?”
“veramente ho fatto il primo decollo ieri sera”
Dentis e’ rimasto gelato, di ghiaccio!
Questo voleva dire essere piloti a Gorizia! CR32 o CR42 cambia il numero, cambia la forma, cambia il motore ma l’aeroplano per aria era lo stesso, identico, anzi il CR42 era qualcosa meglio.
Torniamo alla Spagna, Baleari. C’e’ un allarme, io non ho un aeroplano disponibile e mi infilo in un rifugio. Subito dopo viene dentro lo specialista addetto all’agganciamento del tubo dell’aria compressa agli aeroplani per l’avviamento del motore e strilla:
“Un avion es sin piloto!”
Salto fuori, un pilota, il s.ten. Pallavicini, nella fretta s’era messo il paracadute davanti e non riusciva piu’ a sganciarlo. Tutto questo naturalmente in mezzo alle esplosioni delle bombe che cadevano intorno a noi. Gli strappo il paracadute, lo indosso, metto in moto il CR42 e decollo mentre il campo e’ ancora sotto bombardamento.
Do tutta manetta, o meglio tutta “tacca”, come si diceva allora. La manetta si tirava indietro per dare potenza, a fondo corsa si arrivava a 2200 giri al minuto, c’era poi la “tacca”, superando questa si aumentava di altri 150 giri al minuto. Questo extra di potenza si poteva usare solo in emergenza e per pochi minuti, si rischiava altrimenti di bruciare il motore. Mentre sono in salita vedo ancora i Martin Bomber, bombardieri veloci, e’ una formazione di 28 aerei.
“Questi sono partiti da Reus, Barcelona e tornano a Reus” dico tra me. La formazione vira verso Ovest, verso Ibiza “Non mi fregate, voi tornate a Barcelona”. Li abbandono e punto cosi’ verso Barcelona, a Nord, sempre tenendo la massima potenza, “tirando” il motore. Se non regge, dico tra me, chiudo gli occhi, spingo la cloche tutta avanti finche’ mi infilo in mare e tutto e’ finito. Meglio cosi’ che un ammaraggio ed una lunga agonia in prigione.
Ad un certo punto li vedo nuovamente, ” … avevo ragione, … bravo Biffi!”. Saranno passati 40 minuti e sto ancora salendo, saranno circa 6.000 metri di quota.  “Ora vi frego” penso. Gli arrivo addosso, loro rimangono fermi in formazione. Forse non mi hanno nemmeno visto arrivare. Sparo ad uno che “va giu’”, sparo ad un altro e poi dico “Basta Biffi, torna a casa, questi hanno la radio, avvertono la caccia io sono da solo, arrivano i Rata e mi fanno fuori!” oltre tutto ero vicino alla costa.
Verso la fine del ’37 alloggiavamo in una cascina presso l’aeroporto di Son San Juan, vicino alla stazione radiogonometrica. Una sera vado ad osservare il lavoro degli operatori del gonio che si occupano del rientro radioassistito di un SM 81 che aveva effettuato un bombardamento sul continente. Non e’ tempo brutto, forse qualche nube, comunque l’operatore al radiogoniometro entra in contatto radio, inizia con dei rilevamenti QTE e QDM ma quelli non ne tengono alcun conto e vagano per l’area a nord di Mallorca finche’ dopo circa un’ora di vani tentativi dell’operatore addetto al radiogoniometro, quelli tacciono. Sapremo il giorno seguente che avevano fortunosamente preso terra sull’isola di Menorca, in mano ai repubblicani. Tutti prigionieri, e meno male che ebbero salva la vita.
Dopo tredici mesi alle Baleari rientro in Italia. Pratelli non voleva mandarmi via ma ero debilitato, non stavo piu’ in piedi, tanto che ero svenuto durante il volo riavendomi  mentre l’aereo veniva giu’ in vite. Facevamo una vita da matti. Eravamo una ventina di piloti e si andava in volo all’alba, le missioni erano pesanti ed oltretutto rinunciavamo al riposo per andare a ballare, bere e divertirci.
Rientrato dalla Spagna, fui assegnato di nuovo a Gorizia, alla 73^ Squadriglia. Mi misero nella Pattuglia Acrobatica di Remondino come gregario di riserva.
Poi arrivò Botto, per salire sull’aereo lo aiutava Pezzè, poverino, aveva una gamba sola. Costituimmo una pattuglia in nove, ma non ti dico che razza di programma! Ben 45 minuti di programma. Fuori da una figura, dentro nell’altra, in nove!
Poco dopo inizio’ la guerra e col CR42 fui trasferito a Comiso da dove si operava su Malta. Tutto da ridere, capirai. Quanta acqua c’era pure li’ ! Una volta con un mitragliamento su Alfar  fui colpito sull’alettone sinistro, che mi rimase bloccato in basso. L’aereo si sarebbe messo a fare un tonneau dietro l’altro e allora ho dovuto contrastarlo e continuare a volare con tutto l’alettone destro in basso, cloche a sinistra,  per compensare quell’altro e rimasi solo. I miei colleghi mi lasciarono perchè pensavano che fossi stato abbattuto. Andai a finire a Catania, perche’ l’aereo “la’ voleva andare”, per me dove andava, andava. Atterrai a Catania, me lo misero a posto e tornai a Comiso.
In luglio fummo trasferiti in Libia. Ero a Bengasi con tutto il Gruppo e dovevamo partire per un’ azione il pomeriggio. Saremmo andati a El Adem (Tobruk) che era la nostra base operativa. Decollammo e subito dopo il mio motore si mise a vibrare. Tra me dico: “Non posso continuare la missione. Sara’ una candela, un magnete. Torno indietro,faccio sistemare, riparto e li raggiungo”.  Atterrai e mi misero a posto il motore. Era infatti una candela che non funzionava e questo causava le vibrazioni. Il maresciallo Turchi aveva una candela sola, mi sistemo’ subito il motore, era bravissimo.
Botto era rimasto a terra perchè aveva alcune cose da  sistemare. Gli dissi:
“Comandante, vado via subito. Li raggiungo a El Adem. Faccio in tempo a …
“No, no, andiamo via insieme. Facciamo insieme l’azione”
“Comandante … “
“Ho detto di no. Andiamo via insieme!”
“Va bene”
Siamo cosi’ partiti il pomeriggio e quando siamo arrivati a El Adem i colleghi avevano gia’ portato a compimento l’azione ed erano rientrati. Sette dei nostri erano stati abbattuti. Sette della 73^! Io sarei stato tra costoro senz’altro. Ho avuto fortuna.
Il 9 dicembre 1940 sono stato fatto prigioniero. Per me la guerra era finita!. E’ stata la mia salvezza. Siamo partiti in 78 piloti ed alla fine della guerra abbiamo avuto 83 morti. Com’e’ possibile? Per ogni pilota che “andava di sotto” ne arrivava un altro. Abbiamo avuto cinque prigionieri. Io ero uno dei cinque.
Hai sentito parlare di Sergio Stauble? Era di Venezia ed eravamo molto amici, gli facevo dei dispetti madornali, di tutti i colori, pero’ mi voleva bene ed io gli volevo bene e lo stimavo moltissimo. E’ morto al largo della Sicilia durante un volo di trasferimento in Africa. A proposito potresti sentire che fine ha fatto la sorella che dopo la sua morte abitava a Gorizia . [A seguito di ricerche ho accertato che dopo la morte di Stauble, la sorella si era riunita alla famiglia a Venezia e negli anni ’40, durante un bombardamento su Mestre, mentre si trovava in un bunker, e’ morta insieme ad un altra sorella ed i genitori. E’ sopravvissuto solamente un fratello].
Dicevo, il 9 dicembre … la sera prima Botto ci aveva detto:
“Domani mattina verso le 09.00 si parte”.
Eravamo ad El Adem in Libia nella stessa tenda io e Stauble. Al mattino sveglio Sergio:
“Dai, Sergio, via che c’e’ l’azione, dai c’e’ l’azione …. e va in malora!”.
Non riuscivo a buttarlo giu’ dal letto era come morto:
“Va all’inferno!”.
Monto sul pullman e andiamo in linea. Botto mi fa:
“… e Stauble?”
“Non s’e’ voluto alzare”
“Va beh, vieni tu”
“Vengo io!”
Siamo andati in volo e sono ritornato in Italia 63 mesi dopo.
Torniamo indietro prima di quel 9 dicembre: come pilota ero in un certo qual modo considerato, quindi stimato:non andavo male e pertanto non avevo usurpato niente. Cosi’, quando arrivavano da Roma capitani, maggiori, colonelli per fare quattro o cinque missioni tanto per dire ” … ho fatto la guerra dammi la promozione”, li assegnavano al sottoscritto come gregari. Quindi avevo questa zavorra da portarmi appresso. Quelli sapevano appena stare in volo, avevano fatto un passaggio ordinario sul CR42, quindi avranno avuto un’esperienza di volo di10 ore, … ma quali 10 ore, 5 ore di volo massimo.
Quel fatidico 9 dicembre avevo come gregario il sottotenente Querci che poi si e’ ammalato, tumore, si è suicidato. Mentre siamo in quota mi fa un gesto indicando dietro (non c’era la radio). Sempre a gesti gli rispondo:
“Dove? Dove sono?”
“Oh!, porca miseria. Allora ci sono veramente!” dico tra me “Ma dove? non li vedo”. Querci da tutto motore e si sfila, si va mettere in mezzo agli altri, sotto le ali della chioccia.
E allora sparo per avvertire Botto. Alla prima raffica vedo Botto che accenna un rovesciamento. Io tiro subito su e mentre sono con il  muso in alto, vedo passare tre “Hurricane”. Dunque non li vedevo perchè li avevo proprio sotto la pancia e quasi sicuramente mi aveva già collimato. Mi sono passati avanti, quindi saranno stati forse a 200 metri, a 300 metri al massimo.
Vado su, in candela, e vedo la 73^ Squadriglia avanti, questi tre Hurricane in mezzo e dietro a loro la 96^ Sq. e la 97^ Sq. Tutta una candela che andava fino a terra.Mentre sono nella mischia, vedo che un Hurricane taglia la corda. Evidentemente deve essersi guardato alle spalle e vista quella fila di musi ha pensato di squagliarsela.”Non si fanno queste cose, ora (mo’) te sistemo io!”
Continuo a salire, ero il più alto di tutti, poi mi butto giù con tutto motore, … gli arrivo addosso … riduco motore e metto i giri entro i 1850 e i 2250 perchè altrimenti ti tagliavi l’elica, come successe a Gon e come successe ad altri.
Si, perchè l’elica andava fuori sincronizzazione,e il colpo partiva quando la pala dell’elica passava davanti alle armi. Eh i nostri tecnici, … grandissimi, sai? Il meccanismo di sincronizzazione delle mitragliatrici che sparano attraverso l’elica è semplicissimo, è elementare ma dico io non potevano montare le armi sulle ali come tutti gli altri? E allora andate all’inferno! Avete vinto tutti i record, battuto tutto, conquistato tutto quello che c’era da conquistare per aria e ci mandate senza radio, senza corazza, il serbatoio della benzina sotto il sedere. Ma noi andavamo su tranquilli, sereni e quando rientrava la formazione, il pilota che era rimasto a terra, successe a me più di una volta, tirava moccoli e pugni perchè in quel combattimento lui non c’era.
Uno del quale non faccio il nome, della 73^ Squadriglia che tu hai conosciuto anche di persona, mi diceva:
“Biffi, questa guerra la perdiamo. Biffi, non possiamo, non possiamo combattere contro questi. I nostri aeroplani sono inferiori”
Un bel giorno dissi:
“Senti, o la pianti o ti denuncio, perchè questo non devi dirlo a me”
Come dicevo … quando gli sono addosso apro il fuoco. Collimo, vedo i proiettili esplosivi che scoppiano nell’ala. Non succede nulla, perchè? Non c’è benzina? Nell’altra ala la stessa cosa, scoppiano, nulla. Sparo nel motore, nulla. Le vedo bene le traccianti e poi non era la prima volta che sparo.
A Gorizia prendevo il palloncino che innalzavano con 10 colpi.
Nel frattempo perdo velocità. Quello con tutto motore si sfila “… va beh arrivederci!”.
Viro per riportarmi verso ovest e tornare verso El Adem. Poi guardo indietro, vedo che sta tirando su e virando anche lui. Quindi non gli ho fatto niente. Ma come, gli scoppiavano i proiettili addosso! Allora dico “… dai Biffi, tira su”.
E tira su anche lui e cosi’ ci troviamo appiccicati per aria. Sai, li’ è un istante. Se prendi la decisione giusta bene, senno’ sono guai seri. Somma le due velocità ed arrivi in un istante alla distanza di tiro, saremmo stati alla fine della virata a circa 500 – 600 metri l’uno dall’altro. Prima che questo mi prenda in coda, dico tra me, gli sparo di muso. Sparo di corsa, senza guardare il collimatore.
Vedo le traccianti che gli arrivano addosso. Un bel momento le sue semiali si illuminano e contemporaneamente il mio aeroplano prende fuoco. E’ stato un attimo!. Mi sono arrivati addosso, capirai, i proiettili di otto armi contemporaneamente, quattro su ogni semiala, calibro piccolo tant’e’ che collimavano sui 300 metri. Otto armi che collimano in un punto fanno un disastro!
A quel punto mi sono rovesciato. Io ero solito fare una manovra, il looping “rovescio”. Nel fare questa manovra esce la benzina e prende fuoco il motore. Allora prima di iniziare chiudevo la benzina e toglievo contatto e poi “rovesciavo”. Quando ero sopra, riaprivo la benzina e ridavo il contatto. Fu una fortuna per me perchè questa mano istintivamente ha tolto contatto e chiuso la benzina. Con mia sorpresa l’incendio si e’ spento.
Nel frattempo pero’ mi ero rovesciato e sciolto per lanciarmi. “No!” dico “non mi lancio perchè quello mi spara”. Infatti la RAF sparava addosso al paracadute, l’aeroplano lo trascurava. Hanno cominciato prima gli americani, poi anche gli inglesi o meglio, non so se fossero inglesi o neozelandesi ma erano della RAF. Quindi era un ordine che avevano ricevuto. Un nostro aereo, non era del 4° Stormo, atterro’ vicino a Bardia perche’ colpito, l’ Hurricane gli ando’ appresso, non sparo’ sull’aeroplano, sparo’ sul pilota che correva per allontanarsi.
Come ti dicevo mi ero rovesciato per lanciarmi, mi tenevo con i piedi sul seggiolino attaccato al parabrezza,. Quanto tempo ci vuole per rovesciarti? Un secondo? In quel secondo avevo fatto tre cose: contatto, benzina e sciolte le bretelle. E m’ero dato uno slancio. In quell’istante, l’incendio si e’ spento. Decido di rientrare. Eh si, e’ una parola. Mettiti un po’ sottosopra con l’aeroplano e rientra. Sono rientrato. Non lo so come, ma sono rientrato.
Per fortuna l’aereo continuava a volare rovescio senza imbarcarsi nonostante avessi mollato la cloche. A quel punto dovevo andar giù a candela ed avvicinarmi al mare. Sotto c’era il deserto, chi mi avrebbe trovato?. Mentre scendevo continuavo a guardarmi intorno per cercare l’inglese finche’ l’ho visto con una scia di fumo che perdeva quota. Arrivato per terra è esploso. “Pigliatela in saccoccia!”
“Beh,” dico “allora cerca di andare più vicino che puoi alla strada, sfrutta la quota”. Ho provato a riaprire la benzina e mettere il contatto. Fuoco! Basta, non se ne parli più! Usciva la benzina, quindi mi avra’ colpito i tubi vicini al convogliatore di scarico. No, il serbatoio non era colpito, mi aveva sparato di muso, il serbatoio era protetto dal motore.
Atterro in mezzo ai carri armati inglesi. Mi mettono su una camionetta e viaggiamo tutta la notte. La mattina arriviamo all’aeroporto di Marsamatruk dove c’e un concentramento di prigionieri italiani. Mi fanno scendere, mi consegnano, resto in attesa col caschetto e le mani nelle tasche, capirai quanto ero allegro!
Mi si avvicina un individuo in uniforme. Lo guardo e penso: “ha il distintivo con l’aquila, questo è un pilota!”. Mi viene vicino, mi fa:
“Buongiorno, che è successo?”
Parla italiano, anzi fiorentino.
“Ieri ho avuto un combattimento ed eccomi qua. Lei conosceva il signore inglese che ho abbattuto, era un suo collega?”
“No, no, lui comunque è rientrato”.
Evidentemente s’era lanciato, il paracadute non l’ho visto perche’ è rimasto sopra, io guardavo sotto.
Dunque gli faccio:
“Lei è molto tempo che è qui?”
“Si, dall’inizio della guerra”.
Era dicembre, erano trascorsi sei mesi, volava sui Blenheim.
“Da dove viene lei?”
“C’è scritto sull’aeroplano: 4° Stormo”
“Dov’è il 4° Stormo?”
“El Adem”
“Ah la!, ieri ve l’abbiamo date eh?”
“Ah, lei era uno di quei tre Blenheim?”
“Si!”.
Al mattino avevamo avuto ordine tassativo di non decollare neppure se ci avessero bombardato. Verso le 10, “Allarme, allarme, allarme!” Passano tre Blenheim, sganciano le bombe, fanno una gran cagnara ma nessun danno, son cadute fra gli hangar e gli edifici, la mensa … tutte le bombe in fila, non han fatto nemmeno un buco nelle lamiere degli hangar.
“Si, ci avete bombardato, ma non avete fatto niente assolutamente perchè … ” gli faccio uno schizzo sulla sabbia ” … qua, qua, qua …siete passati ma senza danneggiare nulla. Pero’ se doveste tornare, qui c’è un edificio, all’ingresso dell’aeroporto”
“Si, si”
“Bene, quello salvatelo”
“E perchè?”
“Perchè dentro ci sono le donne”
“Come sarebbe a dire?”
“Le donne, le donne … parliamo d’altro … Lei allora che è tanto tempo che è qua, sa qualcosa dei miei colleghi che non  sono rientrati?”
“Mi dica, mi dica i nomi”
“Bir El Gobi, Renzi”
“Abbiamo trovato il suo cadavere nei rottami dell’aeroplano”.
Era Norino Renzi!, L’avevano già trovato, subito e nessuno di noi lo sapeva. Loro avevano i mezzi che giravano nel deserto, le camionette, la facevano seriamente la guerra, noi no! Dei venditori di vasetti come siamo stati noi. Non noi, che combattevamo. Continuo ad elencare i nomi dei colleghi:
“il colonello Piraggino”
“Prigioniero”
“il tenente Lanfranco”
“Prigioniero”
“Corsi”
“Ah, quello ci è costato caro!” proprio, credimi, fece: “Ahh!”
“Perchè?”
“Quello ci è costato caro”
“Perchè, come ando’ il combattimento?”
“Si e’ trovato da solo in mezzo a cinque Hurricane e ne ha abbattuto tre!”.
Me lo disse in inglese questo.
Di Ugo Corsi nessuno ne ha mai parlato. Io ho cercato di contattare, di trovare notizie attraverso l’Ambasciata, attraverso l’Addetto Aeronautico inglese, non ci sono riuscito. Perchè non è giusto che Corsi sia caduto nel dimenticatoio. Tanto era una persona a postissimo, bell’uomo, simpatico, pilota unico. “Quello ci è costato caro. Da solo in mezzo a cinque Hurricane, ne ha abbattuti tre, … da solo ne ha abbattuti tre!”. Poi è stato sopraffatto dagli ultimi due. Mettiti un po’ da solo in mezzo a cinque Hurricane con un CR42, te lo immagini? Questo me l’ha detto l’inglese eh? Lo sapevamo già noi, perchè da Bardia era stato visto il combattimento, quindi si sapeva. Dall’aeroporto di Bardia, li’ nel golfo di Sollum, li vedi gli aeroplani.
Ugo Corsi di Pirano d’Istria. Torno’ dalla prigionia nel ’38. Raccontava che appena catturato ci fu una visita della “Pasionaria” una famosa comunista:
“estos quien son?”
“pilotos italianos”
“y che esperais a matarlos?”.
(Questi chi sono? Piloti italiani. Che aspettate ad ammazzarli?).
Dal giorno dopo, la mattina li bendavano, li portavano in un certo posto, una scarica di fucileria. Sparavano per aria. Perchè questo? Li liberarono grazie ad uno scambio con piloti rossi. Erano preziosi, altrimenti li avrebbero uccisi tutti.
La prigionia: Prima in Egitto, a Ismailia, poi in Palestina, Latrun. La fame, la fame !. Poi in India a Dehra Dun, a Yol c’erano gli ufficiali.
Dopo un  anno o due, ci trasferirono a sud di Bombay, a Bophal. Dopo l’otto di settembre del ’44 decisi di “cooperare”, come tanti di noi, … seguendo l’esempio del Re (!).
Partiti dall’India con il  caldo, arrivammo in Inghilterra, a Glasgow che c’era la neve, era gennaio. Sono rimasto in Inghilterra fino al rimpatrio avvenuto nel ’45 o ’46. Dopo un mese di licenza premio e ho chiesto di rientrare al Reparto e son tornato cosi’ a Lecce al 4° Stormo ed  ho ripreso a volare naturalmente dopo un po’ di “doppio comando.”
Anche dopo Lecce son rimasto al 4° Stormo poi sono stato trasferito a Napoli, a Capodichino.
Li’ c’erano i Mustang, bei aeroplani … il piu’ bell’ aeroplano e’ stato pero’ il Lightning. Una meraviglia.
Quando mori’ mio padre, per ragioni di famiglia, rimasi a disposizione a Torino. Superato questo periodo, tornai in servizio come avevo chiesto e mi mandarono alla DAT, Difesa Aerea Territoriale.
Andai poi a Parigi a frequentare il corso per istruttore di GCA Ground Controlled Approach (Avvicinamento Controllato da Terra con il radar). Tornato nuovamente a Torino avevo due aeroplani a disposizione, un Savoia Marchetti 102 ed un C45 e con questi volavo ed facevo l’istruttore di procedure GCA.
Il 4° Stormo da Capodichino si trasferi’ a Pratica di Mare, quindi a due passi da Ostia. Chiesi ed ottenni cosi’ di andare là, sempre quale operatore GCA.
Al Colonnello Verrengia dissi:
“Comandante, io voglio volare sull’aeroplano sul quale volate voi”
“Sul F86?. Va buono, va buono!”
Era un napoletano, una persona carissima.
Volai anche sul T33 ed il Vampire.
Andai in pensione dall’Aeronautica Militare nel ’60 e dopo poco tempo incontrai, o meglio mi cerco’, il comandante Staffieri. Mi disse:
“Noi stiamo costituendo una Società, ti interesserebbe?”
“Come no?”
Conseguii cosi’ anche il brevetto di Terzo Grado e di Ufficiale di Rotta e venni assunto dalla SAM dove volai con il DC6 e col Caravelle. Rimasi alla SAM finchè chiuse e poi mi assorbi’ l’Alitalia dove continuai a volare sul Caravelle.
Non avrei potuto fare il comandante in quanto non avevo il titolo di studio di scuola superiore. Il comandante Rambaldi, un amico, un bolognese, parlo’ con Rech il nostro Capo Pilota. Mi mise in addestramento al Comando con un certo Mucci sul DC 6. Un mese circa assieme, non mi disse mai una parola: “tu hai sbagliato, avresti dovuto fare … “hai fatto bene, hai fatto male”. Mai niente, io facevo quello che facevo di solito. Un bel giorno vado in linea, dovevo fare un altro volo con Mucci ma viene il Capo Pilota e mi dice:
“Facciamo un controllo, Biffani”
Andiamo in volo ed arrivati su Ciampino, il Controllore del Traffico Aereo ci mette in holding ed io stupidamente, ero nel pallone completo, entrai in holding con virata a destra. Era invece con virata a sinistra.
Lui disse:
“Basta, basta!”
Mi tolse i comandi dalle mani e andammo a terra. Non mi fece abile al Comando. Avevo 13.400 ore di volo, non erano da buttare via e cosi’ andai a volare in Libia.
Erano gli anni ’78 – ’79 e mi mandaronoa a Gat, avevo 62 – 63 anni. Non ero poi da  buttar via come pilota.
Un giorno ero in volo con l’allievo nella mia area e vedo avanzare da Nord verso Sud un banco di ghibli formidabile che non avevo mai visto. Avverto la torre e dico:
“Fate rientrare immediatamente tutti perchè si chiude l’aeroporto”.
Tornai subito sul radiofaro, mi misi sopra a tutti e aspettai che l’ultimo avesse atterrato ma nel frattempo si era chiuso l’aeroporto. Chiuso di brutto.
Dissi all’allievo:
“Adesso ti faccio vedere un avvicinamento senza visibilità. Stai bene attento a quello che faccio”.
Non credo che abbia capito molto quello che stavo facendo, era un allievo alle prime armi.
Lascio il radiofaro in allontanamento e comincio a scendere per iniziare la procedura strumentale di avvicinamento. Risorvolo il radiofaro alla quota prevista per l’avvicinamento finale, ho il radiofaro in coda, la lancetta e’ spostata un po’ sulla destra rispetto al valore previsto. “Voglio stare tra la pista e il raccordo” dico tra me “Se non vedo uno, vedo l’altro”, giusto?. Scendo, un bel momento vedo sulla sinistra il bordo del raccordo, accosto a destra e mi poso. Chiudo il motore e chiamo la torre:
“Mandatemi il follow-me, non posso rullare, non ci vedo!”.
Insomma un avvicinamento con visibilità bassissima! Credimi, quando arrivava la sabbia eran dolori. Non potevi neanche rullare per andare al parcheggio.
Arrivato al parcheggio c’era un colonnello, una brava persona, che mi disse:
“Lei li fa fuori tutti, questi qua!”.
“Questi qua”. Non li classifico’ diversamente. Dico: “In Compagnia hanno speso milioni per addestrarci, se non abbiamo capito niente siamo proprio dei deficienti!”.
Insomma, rientrai e Salvaneschi, che era il nostro comandante, una bravissima persona, mi disse:
“Biffi, che fai adesso?. Vuoi venire con noi?”
Avevano appena fondato una Compagnia Aerea a Bologna o Parma, non mi ricordo. Avevano due o tre Caravelle ma non disponevano di piloti qualificati. Mi disse:
“Con i secondi che ci sono, non ci posso volare. Dai, vieni tu!”
Feci alcuni voli con loro come secondo pilota.
Un giorno mi scadeva il brevetto di volo ed andai all’ufficio brevetti di Bologna, da Belleu per rinnovarlo. Lui lo guardo’ e disse:
“Ma lei non puo’ mica portare passeggeri a pagamento!”
“E perchè?”
“Sopra i 60 anni non puo’!”
E va beh, e allora dico:
“Basta, finisce cosi’!”.
 
 
 

3.Vincenzo Patriarca

Per poter volare sono stato costretto ad andare in Italia. Non avevo altra scelta. Negli USA volare costa caro. Un corso di volo avanzato per il conseguimento della licenza di pilota commerciale costa intorno ai duemila dollari. In realta’ anche di piu’ poiche’ bisogna aggiungere le spese per il vitto e l’alloggio.
Esiste un’altra soluzione: arruolarsi nell’Aeronautica Militare americana. Ma quali possibilità ha un semplice aviere di diventare pilota ? Puo’ darsi che qualcuno si accontenti di rifornire di carburante gli aerei, sedere ai comandi per riscaldare il motore, togliere i tacchi dalle ruote e guardare qualcun altro decollare. A me queste esperienze frustranti non interessavano.
Di solito andavo all’aeroporto di Long Island  con in tasca solo il denaro per l’autobus e trascorrevo il tempo guardando gli aerei e torturandomi. Andai per la prima volta in quell’aeroporto nel 1931 per alcune lezioni di volo. Ero riuscito a risparmiare un po’ di denaro facendo lavori occasionali nella darsena degli yachts nella periferia di New York, vicino a casa mia.
Avevo 17 anni ed ero affascinato dal volo. Mio padre che sembrava comprendere ed incoraggiare la mia ambizione per il volo mi aiuto’ nelle spese del corso. Avevo venti ore di volo come “solo pilota” al mio attivo e stavo per sostenere la prova d’esame per ottenere la licenza di pilotaggio, quando una disposizione governativa cambio’ il regolamento e porto’ a cinquanta ore le venti previste. Fu un colpo disastroso per me. Sapevo che le mie possibilità di trovare il denaro sufficiente per pagare le trenta ore addizionali erano molto remote.
In quel momento non vi erano molti lavori precari per i giovani, nel Bronx dove vivevo io quasi tutti erano disoccupati.
Una mattina d’estate subito dopo l’alba andai all’aeroporto per osservare un amico che stava allenandosi nel volo acrobatico. A quell’ora del mattino di solito l’aria è fresca e calma, perfetta per l’acrobazia. Non c’è turbolenza nell’aria ed il velivolo risponde docilmente. Nelle altre ore del giorno non potete immaginare il ballo che si incontra effettuando dei tonneau od una serie di stalli.
Quel mattino osservai a lungo le acrobazie del mio amico e poi mi recai nella sala piloti. Ero pieno di rabbia per la mancanza di mezzi che mi costringeva a terra. Mi lasciai cadere sconfortato su una sedia e distrattamente raccolsi una rivista di aviazione che qualcuno aveva lasciato  e cominciai a sfogliare le pagine.
Improvvisamente trasalii. “I figli di italiani residenti all’estero” – queste erano approssimativamente le parole – “che intendono frequentare corsi di pilotaggio possono essere addestrati a spese del Governo italiano presso le Scuole di Volo. Rivolgetevi al Consolato italiano per ulteriori informazioni”.
Lessi e rilessi queste parole, quindi con un grido di gioia corsi fuori. Molto prima che il Consolato italiano di NewYork aprisse ero già ad aspettare. Finalmente, quando il console mi ricevette, ero cosi’ emozionato che potevo a malapena parlare.
Il novembre successivo al Ministero dell’Aeronautica di Roma appresi che ero il primo americano ad approfittare della generosa offerta dell’Italia. In seguito incontrai altri compagni che erano venuti come me dall’estero alle Scuole di Volo italiane.
Fui assegnato inizialmente ad un gruppo Osservatori. Il mio addestramento cominciò cosi’ all’aeroporto di Grottaglie, nel Sud Italia, noto per la serietà degli istruttori e proseguì poi all’aeroporto di Gorizia, vicino Trieste, fucina di brillanti piloti.
Dopo circa tre mesi trovavo molto noioso starmene seduto nel cielo e scattare fotografie. Il mio compagno, Ernesto Monico, odiava anche lui questo lavoro. Ottenemmo la qualifica di “osservatori” e poco dopo fummo trasferiti al prestigioso 4° Stormo Caccia, che stava sul lato opposto dell’aeroporto, il tutto grazie ad un “fortuito incidente”.
Un giorno, mentre io e Monico stavamo provando due aerei Caproni, ci dirigemmo verso il vicino Adriatico. Questi aerei erano pesanti e non era il caso di tentare l’acrobazia. Pero’ ci sentivamo cosi’ ringalluzziti che nel volo di ritorno volammo per un po’ con le estremità delle ali che si toccavano.
Era un divertimento pericoloso e severamente vietato dai regolamenti. A nostra insaputa, il  comandante stava volando un migliaio di metri più alto. Questo giochetto ci costo’ dieci giorni di arresti senza paga. Un mese più tardi fummo trasferiti al 4° Stormo dove, cosi’ ci fu detto, avremmo potuto sfogarci come avremmo voluto.
Nell’agosto 1935 sentimmo per la prima volta parlare di piani per invadere l’Etiopia. Come cittadino americano all’inizio non avevo l’intenzione di andare, ma in seguito cambiai idea e mi offrii volontario.
La primavera dell’anno dopo trascorsi due mesi all’ospedale di Napoli tentando di dimenticare Massaua sul Mar Rosso, dove all’ombra c’erano “solo” 52° centigradi ed i comandi di volo erano cosi’ caldi che non si potevano toccare; Asmara, dove di notte la temperatura scendeva sotto lo zero, duemilaquattrocento metri sul livello del mare; Gura, dove pattugliavamo il confine sapendo molto bene che fine avremmo fatto in caso di atterraggio forzato in territorio nemico; Assab, ancora più calda di Massaua, dove non era raro vedere un pilota smontare dalla carlinga ed accasciarsi svenuto.
Giacendo nel mio letto d’ospedale, ricordavo in ogni dettaglio l’unica vera azione di guerra cui avevo preso parte il giorno di Natale del 1935, quando ci trovammo sopra una mitragliatrice della contraerea nascosta sotto un albero e la mettemmo fuori uso mitragliandola in picchiata. Fu una piccola vendetta personale per la sorte di due compagni rinvenuti presso i rottami dei loro velivoli e scuoiati vivi, con i cuori strappati ed al loro posto infilate le scarpe.
Stavo molto male ma dopo qualche tempo, una volta ristabilito,  fui lieto di ritrovarmi di nuovo al mio Reparto a Gorizia, con “solamente” un’ulcera allo stomaco. Una sera di agosto mi fermai ad un caffè al ritorno dal cinema. Ad un tavolino sedeva un uomo alto con i capelli grigi che giocava al solitario.
Improvvisamente mi fece segno di raggiungerlo e con mia sorpresa mi chiamo’ per nome. Prese un piccolo calendario dalla sua tasca e indicandomi una data mi chiese se sapevo cosa significasse:
“Domenica, 19 luglio ….”
Scossi la testa. Mi spiego’ che era la data ufficiale dell’inizio della Rivoluzione spagnola.
La cosa interessante di tutto questo era che il governo ribelle offriva 200 dollari al mese, tutte le spese, comprese le sigarette, se fossi andato in Marocco a combattere per il generale Franco con la Legione straniera spagnola.
Tutto questo poteva andarmi bene, ma una cosa mi preoccupava: che aeroplano mi sarebbe stato assegnato? Avevo sentito che c’erano pochi aeroplani decenti in Spagna da ambedue le parti belligeranti.
“Che aereo vuole?”
“Un Fiat, … sono i migliori”
L’agente spagnolo scosse la testa:
“Impossibile, non ce lo possiamo permettere, ma non preoccuparti, avrai un buon aereo”
“No – risposi – non accetto se non mi viene assegnato un Fiat”
In passato non avrei mai accettato di rischiare la vita per un paese straniero, ma ora improvvisamente, quando fu chiaro che tutto dipendeva solo da me, non vedevo l’ora di partire per la Spagna. Non avevo mai provato una simile sensazione, non avrei mai pensato ad una simile eventualità’.
Per essere sicuro di partire ed avere l’aereo che desideravo, mi recai in banca e prelevai tutti i miei averi, circa 15.000 lire. Con quel gruzzolo ottenni quello che volevo.
Il 22 agosto ero già in Marocco dove cominciai le prime esperienze di guerra. Il mio primo volo in Spagna fu su un Junker adibito al trasporto passeggeri, con due piloti e due meccanici, tutti tedeschi.
A bordo c’erano anche alcuni ufficiali spagnoli e marocchini. Sul pavimento erano sparse dieci bombe da 500 libbre.
A meta’ strada da Seville (Siviglia), nostra destinazione, incontrammo forte vento e le bombe cominciarono a rotolare sul pavimento dell’aereo. Fortunatamente eravamo vicini a Jerez, territorio degli insorti. Atterrammo e fissammo le bombe con sacchetti di sabbia per evitare che continuassero a rotolare.
Improvvisamente un meccanico dagli occhi spiritati mi disse di fare attenzione agli aeroplani che volteggiavano intorno a Seville.
Ero ancoro scosso da questo avvertimento della mia prima missione di guerra, quando a circa 20 minuti dalla citta’ vidi un puntino in avvicinamento ad una velocità terrificante. Era un biplano. Ci volle un bel po’ di tempo per sapere se era amico o nemico.
Gli aerei franchisti come emblemi per distinguersi avevano una croce nera sulla coda e un disco nero sulla fusoliera e sotto le ali. Gli aerei repubblicani, portavano due cerchi rossi separati da una striscia rossa sulla parte superiore e inferiore delle ali e una bandiera rossa quadrata dipinta sulla coda.
Mentre lo Junker virava per allontanarsi, sparai alcuni colpi per scaldare le mie mitragliatrici. Non fu necessario, le insegne che vidi erano come le mie, non solo, notai anche qualcosa di familiare nel modo di pilotare l’aeroplano.
Quando entrammo in formazione stretta e le nostre estremità alari erano pochi piedi l’una dall’altra, ci scambiammo un cenno di saluto, quindi l’altro pilota sollevo’ gli occhialoni e sorrise: era il mio compagno di Gorizia, Ernesto Monico!
Subito dopo il nostro incontro nel cielo di Seville, Monico, che era un ufficiale, “mosse alcune maniglie” per trasferirmi alla loro base di operazioni a Caceres.
Lo stesso giorno ebbi il mio battesimo del fuoco. Stavamo tornando a Seville scortando i nostri bombardieri dopo un’azione coronata da successo, quando dalla mia destra, da un banco di nubi, venne fuori in picchiata un aeroplano da caccia color rosso ad ala alta, filante e preciso come una freccia, che si avvicino’ al bombardiere.
Il mio compito era proteggere il bombardiere che scortavo. Mi inclinai e gli virai incontro, ma lui aveva picchiato passandomi sotto sparando selvaggiamente senza colpire ne’ me né il bombardiere che lo aveva evitato virando con 90 gradi di inclinazione.
Era un aereo molto veloce che si arrampicava molto bene. Quando riuscii a mettermi in coda, cabro’ violentemente effettuando rapidi rovesciamenti per sganciarsi e portarsi fuori tiro.
Improvvisamente picchio’ di nuovo, prese velocità e parti’ per un looping. Capii  che cercava il combattimento, ma il suo looping era piu’ ampio.
Stando incollato alla sua coda strinsi ancora il mio looping. Giunti al culmine,  stavamo volando rovesci, quasi sospesi nel vuoto e aderenti al sedile grazie alle bretelle.
Erano momenti difficili, ma ero all’interno del looping. Prontamente puntai il collimatore telescopico su di lui, partirono le mie traccianti che colpirono in pieno la sua fusoliera.
Vidi l’aereo entrare in vite incontrollata, eravamo a circa 8000 piedi, (2440 metri). Mentre precipitava, percepivo il sudore sgorgare da tutto il mio corpo e pregai che si lanciasse col paracadute.
Quando rientrai alla base i colleghi si complimentarono per l’abilita’ che avevo dimostrato in occasione del mio primo combattimento aereo. L’equipaggio del bombardiere mi abbraccio’ a lungo riconoscente per lo scampato pericolo ed alla sera ebbi un elogio ufficiale.
Ma quella notte, per la prima volta della mia vita, non potei dormire. Andai nella chiesa più vicina e pregai per l’uomo che avevo abbattuto, ma cio’ non mi fu di molto aiuto.
Il peggio doveva ancora venire. Quando raggiunsi la mia squadriglia a Caceres, venni a sapere che Monico era stato abbattuto dall’asso repubblicano Felix Urtubi e catturato vivo dietro le linee nemiche. E non era tutto, un nostro informatore – che  era stato testimone oculare dei fatti- aveva riferito al nostro comando di Caceres che Monico era stato trattato in modo disumano. Consegnato ad una folla di donne inferocite che simpatizzavano per i repubblicani, le stesse donne che si vedono nei filmati propandistici, queste lo avevano graffiato, sputato addosso e strappati i vestiti. Sotto il sole ardente gli avevano attaccato alle braccia ed alle gambe i finimenti di quattro cavalli poi lanciati ciascuno in una direzione diversa. Squartarono il suo giovane e fragile corpo trascinando i miseri resti sull’arsa terra spagnola. La folla impazzita esultava di compiacimento.
(Il diario “Viva la muerte” di Ruggero Bonomi, capo della spedizione italiana, riporta che Monico si era lanciato col paracadute e aveva preso terra incolume a circa sette chilometri da Talavera verso Oropesa. Fatto prigioniero da un gruppo di miliziani in ritirata era stato ucciso a rivoltellate. Successivamente gli autori vennero identificati dalle truppe nazionali e a loro volta fucilati. NdR)
Ora avevo solo un’idea in mente: anche a costo di morire avrei vendicato Monico!
Mentre il mio aeroplano era in manutenzione, dipinsi una testa di indiano sulla fusoliera con una penna per ciascun aeroplano che avevo abbattuto. Sopra la testa scrissi: “MONICO PRESENTE” ed altrettanto fecero i miei compagni di squadriglia.
Era un modo, tipicamente italiano, per ricordare una persona amata che era scomparsa. Monico era costantemente presente nei miei pensieri ed ora chiunque avesse rivolto lo sguardo ai velivoli della sua squadriglia si sarebbe ricordato di lui.
Nel giro di un mese il mio meccanico dipinse due altre penne sulla testa di indiano.
Un giorno uno dei nostri piloti, non ancora ventenne e senza esperienza di combattimento, mi venne incontro mentre ci  preparavamo per partire, ripetendomi nervosamente:
“Dimmi Patriarca, cosa debbo fare?”
Lo guardai e per la prima volta ero provavo una strana sensazione nel  trovarmi in Spagna.
“Stai tranquillo, Cenni” – dissi – “stai tranquillo!”
Continuavo a pensarci. Avevo la sensazione che quel giorno qualcosa di diverso sarebbe accaduto.
Stavamo effettuando una missione di vigilanza su Talavera e Toledo, in una bella domenica calda. Avevamo portato a termine la missione senza incidenti quando le squadriglie di Salamanca vennero a  rilevarci per il cambio.
Mentre viravamo per ritornare al nostro campo, vidi due bombardieri nemici e tre aerei da caccia con la parte superiore delle ali mimetizzate, a circa 500 metri piu’ in basso.
A gesti lo segnalai al capopattuglia ed egli di ritorno:
“No,  … lasciali andare”.
Deliberatamente disobbedii agli ordini. Buttandomi in picchiata, sparai con le mitragliatrici sulla formazione degli aerei da caccia.
Ne colpii uno e mentre lo inseguivo per un breve tratto, un altro caccia venne sulla mia sinistra e mi si mise in coda. Tentai di sganciarmi ed uscire dal suo campo di tiro ma quell’individuo sapeva come volare e combattere.
Mi piombo’ nuovamente  addosso e di nuovo virai bruscamente. Questa volta manovrai cosi’ brutalmente che il sangue deflui’ dalla mia testa e per alcuni interminabili secondi rimasi totalmente cieco.
Riuscii alla fine a sganciarlo e come me lo ritrovai davanti, si butto’ in picchiata, tirai allora un looping per uscirne in cima.
Capii subito che non era un pilota normale, un cacciatore normale. Doveva essere un pilota molto abile. Improvvisamente capii: questo era l’uomo responsabile della morte di Monico, Felix Urtubi !.
Persi la mia calma. Improvvisamente mi sentii gelare in tutto il corpo. Prudentemente ridussi la potenza e con un freddo calcolo evitai di passargli sotto quando usci’ dal looping, lo raggiunsi e mi incollai alla sua coda.
Feci partire una raffica. Eravamo tanto vicini che potevo vedere le traccianti finire alcuni pollici sotto l’ogiva della sua elica. Sapevo che oramai era una questione di pochi secondi.
Quando vidi sprigionarsi prima il fumo e subito dopo le fiamme dal serbatoio di riserva sopra l’ala, pensai che avevo finalmente regolato i conti per Monico.
Credo che abbia potuto vedere la scritta “MONICO PRESENTE” e deve aver compreso che ero determinato ad abbatterlo ad ogni costo.
Improvvisamente, con un abile cambiamento di tattica, mi sperono’ violentemente con la sua ala sinistra, danneggiandomi l’ala e bloccandomi l’alettone. Entrambi entrammo immediatamente in vite. Il suo aereo precipitava avvolto dalle fiamme. Non avevo rimorsi per Felix Urtubi ma con il pensiero lo salutai come un coraggioso cacciatore, un grande pilota.
Ernesto Monico era vendicato!
Improvvisamente mi sentii pervaso da una grande calma e mi sembrava un miracolo. Una sensazione che non ho mai piu’ provato. Portai la manetta al minimo, spinsi la cloche ma notai che non si muoveva, anche quando l’afferrai con entrambe le mani. L’aereo vibrava e mi sballottava sul seggiolino. Stavo girando in vite sempre più stretta e veloce.
Non so neanch’io perche’, ma detti tutta potenza, slacciai le bretelle, mi sporsi e mi gettai fuori lateralmente. Era il mio primo lancio col paracadute.
Ebbi un senso di sollievo quando il mio corpo volteggio’ nello spazio e subito tirai la maniglia che liberava l’estrattore del paracadute.
Veleggiando appeso al paracadute in una leggera brezza, mi sentivo sereno e spossato. Sotto di me l’aeroplano di Urtubi continuava a bruciare. Il mio si era schiantato al suolo poco distante. Si era schiacciato come un cannocchiale, la coda era entrata nella fusoliera.
Pensai: “Non potro’ aggiungere un’altra piuma sulla testa dell’indiano dipinto sulla fusoliera”.
Mentre scendevo appeso al paracadute mentalmente feci un rapido calcolo: avevo abbattuto cinque aeroplani esattamente in due settimane.
L’impatto col terreno fu piu’ brusco di quanto m’aspettassi. Ero convinto di essere finito dietro le linee dei Repubblicani ma improvvisamente dovetti constatare che mi trovavo proprio in mezzo di esse.
Mi liberai subito del paracadute e mi rifugiai in una buca di granata mentre le pallottole sibilavano attorno.
Quando gli spari cessarono, tentai di trascinarmi carponi verso quelle che ero certo fossero le nostre linee. Poco dopo ebbi un’amara sorpresa: ero circondato da militari repubblicani che mi aspettavano in una buca più profonda. In quel momento mi torno’ alla mente il destino di Monico.
Fui catturato e costretto a marciare fino ad una casetta dietro le linee dove fui perquisito anche nelle scarpe. Fui sottoposto ad un primo interrogatorio da parte di un generale dall’aria paterna che interruppe a metà le sue domande per chiedermi se dovevo andare al bagno.
“Mercenario!”esclamo’ il generale repubblicano guardandomi sarcasticamente ”Pensavo che voi tutti eravate morti con i conquistadores”,
risposi “Immagino che sono qui per essere mandato davanti al plotone d’esecuzione domani all’alba. Le sarei grato se telegrafasse a mio padre, qui c’è il suo nome e l’indirizzo. Come ho detto, sono un americano e mi sono arruolato nella legione straniera spagnola sotto il falso nome di Cesare Boccolari. Non volevo che lui lo sapesse e si preoccupasse.
Poco dopo fui messo sotto scorta rinforzata e caricato su un automezzo diretto a Madrid: nella piu’ fortunata delle ipotesi sarei finito davanti al plotone d’esecuzione il mattino successivo, ma il comportamento delle guardie che stavano sul cellulare e di quelle che stavano sul predellino, mi preoccupava.
Ad alta voce ed in modo provocatorio, discutevano sui dettagli delle torture che avevano inflitto ai prigionieri nemici prima di sopprimerli.
Durante quelle due ore di viaggio verso la capitale, il filo che mi legava i polsi mi penetrò nella carne bloccando la circolazione del sangue, facendole diventare bluastre le mani. Un soldato lo noto’, rise e sputo’ sulle mie mani con disprezzo.
Cominciai a dire il rosario, più volte. Un rosario immaginario. Il mio era stato confiscato al momento della perquisizione assieme a cronometro, pullover, sciarpa, 800 pesetas e 200 franchi. Il giorno prima avevo ricevuto il salario mensile equivalente a 200 dollari americani.
Avevo messo in conto di cadere prigioniero ma, quando uno dei soldati che mi avevano catturato mi tolse una piccola spilla, ricordo di mio fratello piu’ giovane, Carmine, arruolato nella Marina degli Usa in Cina, vidi rosso. Considerando il momento ed il luogo, cio’ potrebbe sembrare bizzarro.
A Madrid fui sistemato in una buia cella dei sotterranei del Ministero dell’Aria e della Marina. Avevo sudato ed ora, mentre attendevo l’alba, nella mia leggera tuta di volo, il mio corpo era scosso dai brividi. Non accadde niente per ore finchè una guardia mi porto’ dell’acqua e fagioli. Più tardi altre due guardie mi scortarono ai servizi igienici. Questa routine continuo’ per giorni.
Una notte improvvisamente entrarono nella mia cella cinque individui che indossavano delle tute e dei berretti rossi e neri sui quali c’erano le lettere FAI, Federazione Anarchica Iberica, uno di questi mi tiro’ giu’ dalla brandina.
Mentre mi spingevano lungo un corridoio fino ad una parte più illuminata dei sotterranei, vicino ad una caldaia, stesero alcune carte su un tavolo, mi misero una penna nella mano e mi ordinarono di firmare.
Chiesi di cosa si trattasse e come risposta ricevetti un colpo in faccia con il calcio del fucile. “Fai quello che ti abbiamo detto” strillarono. Mi rifiutai di firmare!
Mi fissarono per un momento in silenzio quindi, uno che sembrava il loro capo, comincio’ ad interrogarmi sulle dimensioni della forza aerea di Franco, il numero di tedeschi e di marocchini e se quest’ultimi erano stati trasportati dal Marocco in aereo o per nave. Risposi semplicemente: “Non lo so”. Avrei voluto raccontare loro  un sacco di frottole, ma ero troppo intontito da quel colpo con calcio di fucile ed i miei riflessi erano rallentati.Alla fine, dopo avermi torto piu’ volte le braccia, puntate le pistole allo stomaco e con queste colpitomi il capo, capitolai e firmai i documenti.
Ero troppo esausto per sospettare che le carte riportavano una dichiarazione completamente falsa nella quale si diceva che ero stato obbligato dalle autorita’ italiane ad arruolarmi nella Legione Straniera di Franco. Questi documenti dovevano essere consegnati a Ginevra quale prova contro il Governo italiano.
Solo chi ha trascorso giorni e giorni in una buia cella, attendendo che accada qualcosa di diverso, sia essa buona o cattiva, purchè accada, può comprendere la disperazione e senso di impotenza che si prova.
“Quando tocchera’ a me? Quando mi fucileranno?”chiedevo alle guardie. Loro sghignazzavano. “Vuoi andare alla «Corrida» chico?” “Alla «Corrida»?” non capivo e loro facevano il gesto di sparare col fucile.
Dopo circa due settimane inaspettatamente fui portato sotto scorta in un ufficio dei piani superiori. Mi dissero che due scrittori americani, Jay Allen e Louis Fischer volevano vedermi. Non avevo mai sentito i loro nomi. Pensai che questo fosse un nuovo trucco per farmi parlare.
Appena entrai nell’ufficio dove mi attendevano, notai che uno di loro (poi lo avrei identificato in Allen) aveva carta e matita pronto a scrivere quello che avrei detto. Mi preparai mentalmente per dare meno informazioni possibile.
Allen fu il primo a farmi le domande.
 “Lei e’ il primo pilota americano catturato in azione. Si rende conto delle gravi conseguenze?”
Compresi allora che forse loro avrebbero potuto aiutarmi. All’improvviso Allen affermò che non c’era alcun motivo per cui dovessi rimanere in Spagna. Fischer assenti’ affermando che ero fortunato ad essere ancora vivo e dubitava che lo sarei stato tra una decina di giorni. Mi rassicurarono che avrebbero fatto tutto il possibile per risolvere al meglio quella brutta situazione.
Due giorni più tardi all’alba mi tirarono fuori dalla cella, mi misero le manette e mi caricarono su un cellulare.
“Siamo alla fine,” pensai “e’ giunto il momento!” Ora tutto ciò che desideravo era farla finita il più presto possibile.
Al “Conde Duque”, le piu’ vecchie caserme di Madrid mi sistemarono in un sotterraneo. Dovetti passare in un cortile, attraverso delle vecchie scuderie, prima di raggiungere la mia cella sotterranea. Era freddo e tirava un gelido vento e ad un certo punto vidi un gruppo di tremanti soldati, circa una cinquantina, che avevano disertato dall’esercito di Franco. Notai tante donne ammassate supplicanti che agitavano le mani. Erano le madri interrogate dai funzionari repubblicani in merito alla posizione dei loro figli. Loro non lo sapevano, e l’opinione generale era che si fossero aggregati alle truppe di Franco. Queste madri erano tenute prigioniere tra la popolazione civile.
La guardia che mi aveva condotto nella cella del “Conde Duque” era un uomo anziano dallo sguardo gentile. Appena mi libero’ dalle manette, le braccia mi tremarono.
“Hai paura?” mi chiese.
“No, e’ soltanto l’incertezza del mio futuro. Mi farebbe un atto di carita’ cristiana se riuscisse a sapere quando saro’ fucilato”
“Non si curano di atti cristiani da queste parti” rispose con tono duro
“ma, … paciencia ! Sei giovane e hai tempo per morire”
La cella era infestata da ratti, scarafaggi, pulci e formiche. Di notte, mentre giacevo sulla paglia, sentivo i ratti correre sul mio corpo. Mi abituai a loro ma dormivo raramente.
Indossavo ancora la mia leggera tuta di volo. In ottobre a Madrid fa freddo. La mia cella era umida e un lenzuolo di cotone non mi teneva caldo.
Nello spesso muro di pietre c’era in alto una piccola apertura con le sbarre dalla quale passava una forte corrente d’aria. Spesso giacevo in una specie di trance o stupore pensando di essere ancora nella casa di mio padre nel Bronx. Avrei voluto liberarmi di questi sogni, probabilmente cominciavo ad impazzire.
Ogni settimana la guardia mi portava una candela e sette fiammiferi. Potevo cosi’ vedere  gli avanzi di grasso che mangiavo e la scodella d’acqua che mi veniva consegnata ogni giorno. Solo con la luce della candela potevo tenere lontani i ratti dal mio cibo.
Avevo trovato una piccola nicchia piana nella parete di pietra della cella, dove appoggiare la candela. Un giorno essa cadde sul pavimento ma non con la velocità che dovrebbe avere un oggetto di quelle dimensioni. Venne giù lentamente come al rallentatore, ruotando su se’ stessa come un velivolo senza controllo. La piccola fiamma che si diffondeva lungo la cera sembrava un aereo in fiamme.
Mi sentii mancare, mi coprii gli occhi con le mani ed ebbi una visione. Vidi Urtubi precipitare con l’aereo in fiamme più chiaramente di come lo vidi quel fatidico mattino.
Sebbene inizialmente non ne rendessi conto, tutta Madrid sembrava sapesse che  ero rinchiuso nel Conde Duque. Credo che l’unica cosa che mi evito’ di impazzire sia stata la moltitudine di persone che venivano a vedermi. Praticamente non ero mai solo durante il giorno. La porta della mia cella era in lamiera d’acciaio. La gente mi scrutava dallo stretto corridoio che portava alla mia cella. Mi sentivo come un animale allo zoo.
Alle donne non era permesso vedermi ma le guardie, quando erano fuori servizio, portavano le loro ragazze. Loro non si limitavano ad osservarmi, inveivano e mi sputavano addosso. Una ragazza invece non lo fece ma esclamo’: “Sei troppo bello per morire”.
Gli uomini mi lanciavano degli insulti, mi maledivano, altri mi lanciavano pietre attraverso le sbarre. Un giorno arrivo’ in caserma un reparto di seimila militari e le guardie stentarono a tenerli lontani dalla mia cella.
Una settantina di loro riuscirono ad entrare con la forza gridando insulti osceni nei miei riguardi. Mi e’ rimasta impressa una voce piu’ acuta che sovrastava le altre e gridava in inglese:
“Che la malasorte ti accompagni, ragazzo”.
Questi fanatici Repubblicani erano cosi’ pazzi che contribuirono ad evitare che io impazzissi.
Le due guardie del turno di notte erano molto gentili con me. Qualche volta andavano a comprare a loro spese pane, uva e caffè e me li offrivano quando eravamo soli. Dovevano stare molto attenti che nessuno li vedesse.
Una notte udii in distanza delle voci maschili che cantavano l’inno fascista.
”Sono circa trecento e vanno a morire”
disse la guardia.
Un’altra notte udii delle donne urlare.
”Per amor del cielo” chiamai la guardia “cosa succede la fuori?”
“Hanno preso le prostitute che Franco ha mandato per diffondere le malattie veneree nei ranghi dei Repubblicani”mi disse la guardia che in passato mi aveva detto di avere pazienza.
“Le ragazze che Franco mando’ a diffondere le malattie veneree tra i ranghi dei Repubblicani?. Veramente tu credi a questa propaganda?” esclamai.
”Quien sabe? (chi lo sa?). Non so se credere ai miei occhi, ma questa è la guerra. Oggi in strada ho visto un combattimento tra il P.O.U.M. (Partido Obrero Union Marxista) ed il F.A.I. (Federacion Anarquista Iberica). Domani il Partito Socialista combatterà tutte e due e noi ci chiamiamo lealisti (republicani), uniti insieme per una causa comune. Non si sa a cosa credere oggi, l’unica cosa sicura e’ la propria pancia che dice quando e’ vuota. Soltanto lei dice la verita’ “ mi rispose la guardia.
Mentre parlava le grida delle donne aumentavano. Acute e più alte e sovrastanti i rumori dei motori che provenivano dalla strada. Facevano rabbrividire. Non avevo mai sentito simili urla strazianti.
“Dove le stanno portando?” chiesi.
“Alla Corrida”, disse la guardia passandomi una sigaretta.
Un sorriso strano apparve sulle sue labbra come se facesse fatica a controllarsi. Si allontano’ dalla porta della mia cella. Le grida cessarono improvvisamente. Non riuscivo a togliermi dalle orecchie le grida di quelle sventurate.
Una mattina una guardia irruppe nella mia cella:
“Stai per uscire”, disse.
Avevo difficoltà a sentire la sua voce, ma poco dopo ero davanti ad un generale spagnolo e, con mia grande sorpresa, a due membri dell’ambasciata americana.
Al mio fianco c’era il Facente Funzioni dell’Ambasciatore Wendelin ed il Consulente Generale Johnson.
“Siedi diritto, sei in una situazione molto critica, ma forse potremo tirarti fuori”  sussurro’ Mr Wendelin.
Al ritorno nella mia cella avevo il dubbio di avere sognato e mi sembrava impossibile che si stesse facendo qualcosa per liberarmi. Solo i resti del cibo che Mr Wendly mi aveva portato, una bottiglia vuota di latte ed alcuni torsoli di mele provavano che non sognavo.
Da quel giorno non dovetti più mangiare i rifiuti della prigione. Ogni pomeriggio veniva  qualcuno dell’Ambasciata con un canestro di zuppa calda, pane e frutta. Fui anche trasferito dalla cella sotterranea ad uno dei garage nel cortile. Mi fu permesso di fare della ginnastica. Una volta giocai perfino a palla con la guardia.
E, incredibile, mi fu dato un pezzo di sapone: potei fare il bagno nell’abbeveratoio dei cavalli della prigione e lavare finalmente la mia tuta di volo sporca, indossata per tutte quelle interminabili settimane.
Cominciavo a perdere la speranza di essere rilasciato, tuttavia nelle mie preghiere imploravo la fine di questa prigionia. Quando finalmente era arrivato un aiuto, forse era già’ tardi. Presto una notte anch’io sarei stato portato alla “Corrida” per essere giustiziato. Stupidamente mi stavo facendo del male da solo.
Un tardo pomeriggio due Franchisti (Nazionalisti), un portaordini del Marocco ed un artigliere italiano, furono rinchiusi nel garage con me. Il primo era quasi morto. Sussurro’ che gli avevano messo una corda attorno al collo ed era stato trascinato per le strade di Toledo. Non si capiva come fosse ancora vivo. La folla lo aveva lapidato e un esagitato gli ha gridato: “Hai ucciso mio cugino” e poi colpito alla la testa con la baionettta.
Il prigioniero italiano, un ragazzo sotto i 19 anni, era isterico, terrorizzato. Quando i soldati che lo portarono in cella si voltarono per andare via, egli si piego’ sulle ginocchia piangendo e baciando loro le mani.
Osservavo ed ero disgustato dalla scena. Quando la guardia non ci poteva sentire, mi avvicinai a lui:
“Tenta ancora una volta quella specie di baciamano e se i Repubblicani non ti sistemano, ci penso io. Puoi esserne certo che lo faro’!”
gli dissi.
Mi guardava attraverso le lacrime come un bambino. Ho pensato che non fosse fatto per la guerra.
“Sarai interrogato” continuai “e ricorda una sola cosa, non dichiarare mai la verità. Tira fuori i muscoli, fai vedere che hai del fegato. Esagera o diminuisci i fatti, intimoriscili, falli preoccupare. E’ l’unico modo per aiutare i compagni di prigionia”
Quella stessa notte fu portato al Ministero per un interrogatorio. Immagino che sia crollato perche’ racconto’ tutto quello che gli avevo detto, parola per parola. Fui rispedito nuovamente nella cella situata nei sotterranei del carcere.
Quando all’indomani, William Krieger, terzo segretario dell’Ambasciata Americana, venne da me con il cibo, mi fisso’ a lungo:
“Hai una predisposizione per ficcarti nei guai. Come sei riuscito a rimanere vivo per 23 anni?”, mi disse.
Krieger mi aveva portato dei canditi e quella notte, quando un tenente venne nella mia cella, gliene offrii alcuni.
“Molto buoni” disse ma i suoi pensieri sembravano molto distanti.
“E’ un candito americano”, risposi. Prese un altro:
“A proposito, stasera verranno a prenderti per portarti via”
Non ebbi il tempo di rispondere, se n’era già andato. Provai di nuovo un senso di sollievo.
Ero dispiaciuto per il personale dell’Ambasciata che avevo stupidamente messo nei guai con i consigli al prigioniero italiano. Jay Allen e Louis Fischer si erano adoperati per me ed io gli avevo procurato delle noie per niente.
A mezzanotte salutai  le due guardie che erano state sempre premurose e mi avevano trattato bene. Una guardia dall’aspetto molto fiero venne verso di me, non l’avevo mai vista prima. Mi porto’ in un ufficio della caserma, la canna del suo fucile premeva tra le mie scapole.
All’interno aspettammo due colonnelli Repubblicani. Uscimmo subito nel cortile. Un capo delle guardie mi saluto’ e mi sussurro’: “Ti auguro buona fortuna”.
C’era qualcosa che non riuscivo a ricordare, poi improvvisamente mi rammentai:
“Ci sono due coperte nella mia cella, appartengono a Bill Kriger dell’Ambasciata Americana”.
Uno dei colonnelli ordinò di andare a prenderle. Poi mi spinsero sul sedile posteriore di una limousine che stava aspettando. Sentivo i battiti del mio cuore, ma la mente era lucida. Cio’ nonostante non riuscivo a pregare, continuavo a ripetere a me stesso:
“Ricordati che questi sono i tuoi ultimi momenti, in questo luogo che non dimenticherai per tutta la vita”.  Improvvisamente quella parola “ricordati” sembrava divertente, era tutto finito!.
Eravamo partiti da poco quando l’autista si volto’ verso il colonnello:
“Dove andiamo?”
Il colonnello, seduto alla mia destra rise, mi guardo’ negli occhi e rispose:
“All’Ambasciata Americana”
Il mio viso dev’essere sbiancato o arrossito, non lo so neanch’io.
L’altro colonnello alla mia sinistra aggiunse:
“Noi rispettiamo il Governo Americano perchè rispetta il trattato di non intervento”
“Dove pensa che la stavamo portando?”, chiese il colonnello alla mia sinistra.
“Alla Corrida”, risposi spontaneamente.
Se sono un mercenario, come disse il generale repubblicano, allora non sembra proprio sia stato un grande affare! Il governo degli Stati Uniti non riconosce quei “bizzarri” piloti che vanno a combattere per altri Paesi.
E cosi’, sebbene abbia quattro anni di addestramento in due delle migliori scuole militari italiane, su un aereo da caccia fra i piu’ moderni ed un’esperienza unica nella disciplina di due guerre in un anno, nel mio Paese non ho diritto neanche una semplice licenza per il volo turistico.
Secondo la regolamentazione in vigore negli Stati Uniti, dovrei frequentare nuovamente una scuola di volo e ricominciare d’accapo tutto il corso di pilotaggio.
Mi e’ “concesso” invece trovare lavoro come autista d’auto o di camion, come marinaio su uno yacht, come verniciatore a 70 cents l’ora, ma guadagnare da vivere col lavoro che meglio conosco, cioè il volo, quello proprio no!
“Sono stato messo a terra”, come si dice nel gergo aviatorio. Le parole più tragiche per un uomo che vive solo per volare!