Pubblicato sul “Giornale di storia contemporanea”. a. XIII, n. 1, giugno 2010, pp. 154-166
Otto settimane dopo la rivolta dei generali spagnoli del 17 luglio 1936 in Marocco contro il governo repubblicano, l’armata d’Africa che risaliva la penisola al comando di Franco si trovava a quaranta chilometri da Toledo e ottanta da Madrid e avanzava incontenibile sotto la copertura della sedicente aviazione del Tercio, la legione straniera spagnola, formata essenzialmente da volontari fascisti e nazisti che pilotavano aerei italiani e tedeschi.
La mattina del 13 settembre tre caccia Fiat CR.32 dell’aviazione legionaria, ai comandi del capitano spagnolo Joaquín García Morato e dei sergenti della Regia Aeronautica italiana Boccolari e Giri (nomi di copertura rispettivamente di Vincenzo Patriarca e Gian Lino Baschirotto), decollavano dall’aeroporto di Cáceres per una missione di pattugliamento in territorio repubblicano sul fronte di Talavera de la Reina. Al rientro sorpresero dall’alto due bombardieri nemici scortati da tre caccia e li attaccarono . Il combattimento volse a favore dei legionari, che misero in fuga i bombardieri e abbatterono i caccia di scorta. Durante il duello acrobatico l’aereo di Boccolari urtò l’avversario e divenne ingovernabile e mentre il repubblicano si schiantava al suolo col suo velivolo, l’italiano si lanciava con il paracadute toccando terra all’interno delle trincee nemiche . Catturato da miliziani combattenti Boccolari evitò il linciaggio – anche perché si proclamò cittadino americano –; dopo essere stato un po’ strapazzato, fu portato in macchina al comando di settore a Santa Olalla e interrogato dal generale José Asensio Torrado. Quel giorno al comando si trovava casualmente il corrispondente dei quotidiani londinesi “Daily Telegraph” e “Observer”, Henry Buckley, che malgrado non potesse vedere il prigioniero fu il primo giornalista straniero ad essere informato della cattura del primo pilota italiano dall’inizio della guerra . Al generale Boccolari dichiarò di chiamarsi in realtà Joseph Vincent “Vincenzo” Patriarca e di essere americano; all’alto ufficiale bastò un breve colloquio per rendersi conto che il prigioniero poteva essere utilizzato con profitto per scopi propagandistici e subito lo fece trasferire a Madrid presso il ministero della Marina e dell’Aria occupato da una settimana dal socialista Indalecio Prieto. Poco dopo Asensio incontrò Pietro Nenni, in visita ai fronti di battaglia e che il giorno 16 avrebbe raccolto la salma di Fernando De Rosa, e raccontandogli di Patriarca disse preoccupato: “Finché non avremo un’aviazione e dell’artiglieria, c’è poco da fare”.
Nella capitale, intanto, era giunta la voce della cattura e nel primo pomeriggio l’automobile dei miliziani entrò nel cortile del ministero circondata da una folla ostile. Patriarca venne rinchiuso in un vano sotterraneo, mentre ai piani superiori le autorità concertavano l’operazione di propaganda. La mattina seguente il prigioniero fu condotto in una sala del ministero al cospetto di alcuni ufficiali e di civili “dall’aspetto autorevole” per il primo interrogatorio formale. Nelle sue memorie Patriarca scrive che ebbe un battibecco con Pietro Nenni – il primo che gli rivolse la parola –, ma non possediamo la versione del leader socialista; di certo il prigioniero fu interrogato anche dal dottor Berardino “Dino” Fienga, magnifica figura di antifascista salernitano combattente per la Repubblica , al quale raccontò di essere figlio di immigrati italiani, nato a New York il 12 gennaio 1913 e che aveva vissuto nel Bronx fino al 1933 quando, sfruttando l’opportunità che il governo fascista offriva agli italiani all’estero di ottenere gratuitamente il brevetto avanzato di volo, si era trasferito in Italia entrando in seguito nella Regia Aeronautica. Già volontario nella guerra d’Etiopia, nell’agosto precedente aveva raggiunto il Marocco spagnolo e si era arruolato per combattere nel Tercio. Scrive Patriarca che Prieto – dubitando che fosse realmente un americano – lo fece interrogare da un ufficiale di marina padrone della lingua inglese, finché “resosi conto che non vo[levo] o non po[tevo] fornire loro informazioni utili il ministro ordin[ò] che ven[issi] riportato in cella”. In verità come vedremo le “informazioni utili” non mancarono.
Il 15 settembre il ministro degli Esteri Julio Álvarez del Vayo consegnò all’incaricato d’Affari italiano una nota di protesta nella quale venivano elencate le prove “di un aiuto costante che consiste nella fornitura [ai ribelli] di armi, munizioni e uomini inviati dall’Italia”, l’ultima delle quali precisava che “il 13 settembre fu abbattuto fra Talavera e Santa Olalla un aereo italiano CR.32, il cui pilota, il sergente Vincenzo Patriarca, ha rilasciato la dichiarazione che figura in allegato” . In questo documento , dattiloscritto in lingua italiana con firma autografa “Pilota Vincenzo Patriarca” in calce, sotto a “Madrid 15 de setiembre de 1.936” , l’interessato dichiarava di aver accettato – insieme con altri piloti italiani – la proposta di arruolamento di alcuni ufficiali che aveva conosciuto durante il servizio in Etiopia; si era quindi imbarcato a Genova con altri piloti, specialisti e aerei smontati su una nave “che non aveva un nome spagnolo, ma che all’uscita dal porto alzò bandiera repubblicana” rotta Melilla, nel Marocco spagnolo, che raggiunsero il 14 agosto. All’aeroporto di Nador tecnici e piloti montarono gli aerei; li trasferirono a Tetuan e quindi si recarono a Siviglia dove effettuarono numerose missioni. Alla fine del mese ricevette l’ordine di trasferirsi a Cáceres con una pattuglia per dare supporto alle truppe avanzanti sul fronte di Toledo. Durante il volo smarrirono la rotta e atterrarono in Portogallo, dove ricevettero un aiuto incondizionato per smontare i tre velivoli e trasportarli in autocarro a Cáceres.
Nella sua deposizione Patriarca fu prodigo di dettagli: fece nomi e cognomi dei commilitoni; dichiarò di aver visto nel porto di Genova un carico di benzina e di munizioni destinato ai ribelli; precisò l’entità del soldo percepito; disse che a Melilla aveva rifiutato l’invito di assistere alla fucilazione di “un generale e otto ufficiali” che si erano opposti all’alzamiento. Le informazioni di carattere militare furono minuziose: all’aeroporto di Cáceres “erano continuamente in volo due o tre trimotori da bombardamento con scorta di caccia, ad eccezione dei voli notturni e a grande distanza”; l’aeroporto era ubicato “due chilometri a est di Cáceres”, privo di cannoni antiaerei ma con “mitragliatrici antiaeree disposte attorno alla pista”. Ospitava “sei piloti da caccia e sei da bombardamento tedeschi; sei piloti da caccia e tre specialisti italiani; quindici o più specialisti tedeschi; sei caccia Heinkel, tre bombardieri Junkers; nove Fiat CR.32, un Douglas e tre Bréguet spagnoli”. Patriarca fornì queste e altre analoghe informazioni sia per l’aeroporto di Cáceres che per quello di Siviglia, in cui aveva visto “almeno dodici Junkers, apparecchi da trasporto che potevano essere trasformati in bombardieri, otto o nove piloti e venticinque specialisti tedeschi, cinque o sei caccia Heinkel […] sei Fiat CR.32, cinque bombardieri Savoia Marchetti con cinque piloti italiani”.
Ce n’era abbastanza per consentire al governo repubblicano di effettuare una pubblica denuncia, ma in realtà nelle cancellerie l’intervento italo-tedesco era un segreto di pulcinella. Per una curiosa coincidenza il giorno dopo la consegna della nota di protesta citata, l’ambasciatore degli Stati Uniti veniva informato da tre corrispondenti suoi connazionali che “l’aviazione dei ribelli consisteva in gran parte d’apparecchi da bombardamento tedeschi e di caccia italiani, e che nei caffé di Siviglia avevano visto degli ufficiali tedeschi” , però agli Usa e alle altre potenze democratiche mancava la volontà politica di agire.
Patriarca non rimase a lungo nei sotterranei del ministero; alla fine del mese fu trasferito nottetempo alla caserma Conde Duque della capitale e rinchiuso in uno sgabuzzino vicino al corpo di guardia. Nella sua nuova prigione, dopo aver subito una finta fucilazione e avere riparato una Fiat 509 spider – in una preoccupante altalena di bastone e carota –, gli venne detto che il ministro Prieto aveva dato ordini per un trattamento di favore, cui fece seguito la visita in cella di due funzionari dell’ambasciata Usa, sotto lo sguardo stupito del suo guardiano. Venne spostato in una cella più confortevole e quotidianamente cominciò a ricevere i pasti da un incaricato dell’ambasciata; pochi giorni più tardi lo visitò di persona Eric Wendelin, “terzo segretario dell’ambasciata” il quale lo assicurò che erano stati attivati i canali diplomatici per liberarlo e riconsegnarlo agli Usa.
Poco prima del trasferimento alla caserma Conde Duque, il 25 settembre i noti giornalisti americani Louis Fischer e Jay Allen, forse in virtù della “loro stretta amicizia con Álvarez del Vayo e Juan Negrín” , furono autorizzati a intervistare Patriarca. Fischer, che prese appunti nel suo diario rimasto inedito, gli disse: “Sei un incosciente e un autentico idiota. Ti sei ficcato in un bel guaio. Il governo di questo paese ha tutto il diritto di fucilarti. Se ti comporti come si deve, forse potremo aiutarti” ; Allen, invece, pubblicò l’intervista il 30 settembre seguente sul “Chicago Daily Tribune” con un titolo molto eloquente: Ragazzo bombardiere Usa, con le lacrime agli occhi, racconta una storia di guerra . Il giornalista scrisse che la sua prima impressione di Patriarca fu quella di “un giovane barbiere americano che si era imbarcato in una avventata e crudele avventura di guerra ed era finito male. Giaceva in una cella, con le lacrime agli occhi, forse più in preda al rimorso che impaurito”. Il prigioniero gli raccontò con enfasi e spacconeria la storia della sua vita in presenza del sottosegretario all’aeronautica e di una graziosa stenografa “comunista e molto seria” (sic), che non sembrava insensibile agli sguardi languidi e prolungati del giovane italoamericano. Quando Allen gli parlò di Urtubi la sua vanteria venne meno: “Vidi i suoi occhi riempirsi d’acqua e il suo mento tremare. Lo sconsiderato asso divenne un ragazzo patetico. Mi afferrò. Le sue mani erano fredde e umide. ‘Per favore, dite loro che sono americano. Dite loro di rimandarmi a casa. Voglio uscire da questa…’ Gli ricordai che era un loro nemico e che gli americani che combattevano per un paese straniero non potevano pretendere la protezione del governo quando le cose si mettevano male. Gli dissi che doveva rallegrarsi per non essere stato fucilato. ‘Forse non ti fucileranno più’, aggiunsi. ‘Credete che io sia spaventato, non è vero?’ disse. ‘Non è così, credetemi. È che mi sento ignobile. Mi sento come se fossi un criminale. Sono stati tutti gentili con me: dopo quello che ho fatto!’ ‘Perché l’hai fatto? Ti piace uccidere?’ domandai. ‘No, non mi piace uccidere.’ ‘Allora perché andasti a bombardare i villaggi in Etiopia?’ ‘Ah, gli etiopi,’ sbuffò, ‘avreste dovuto vedere cosa fecero ai miei amici che avevano catturato!’” Patriarca affermò inoltre che aveva cessato di simpatizzare con i ribelli dopo aver assistito all’esecuzione di civili nel sud della penisola: “Ammazzavano gente ovunque, tagliando la gola anche ai bambini”. Quando Allen gli fece notare la stella a cinque punto che sfoggiava sulla tuta di volo, rispose con orgoglio che gliel’avevano donata “le guardie [mie] amiche” le quali “non agivano da rossi. Affermavano che stavano combattendo per la loro libertà. Che Franco tentava di rubargliela”. Egli lo riteneva giusto perché “a Siviglia gli operai erano fucilati di continuo, una sorta di spettacolo”. A dispetto della situazione Patriarca non disperava che i repubblicani si convincessero che non era un loro nemico: “Voi glielo direte, non è vero?” domandò ad Allen. “Chiedete loro di lasciarmi tornare a casa. Ne ho abbastanza dell’Europa e dell’avventura. Se mi lasciassero rimpatriare potrei presentarmi ogni settimana per garanzia al consolato spagnolo di New York. Potrei dare la mia parola d’onore…ma so che non mi crederanno.” E concluse amaramente l’intervista: “ A volte gli amici (sic) di qui mi guardano come se fossi un pidocchio. So bene perché: ho preso quattrini per combattere mentre essi combattono per la loro libertà e la loro vita […]. Se mi fucilano sento di aver fatto un grave torto alla mia famiglia. Mio padre ha bisogno di me”. Le ultime righe di Allen erano intrise di fatalismo: “Suppongo che egli sia salvo. Ma se qualcosa va storto a Madrid, il cielo aiuti lui e molti altri”.
Mentre Patriarca veniva intervistato dai due giornalisti americani, dalla tribuna dell’Assemblea della Società delle nazioni a Ginevra – di fronte a gente poco incline ad ascoltarlo – Álvarez del Vayo pronunciava un ineccepibile e toccante discorso in cui denunciava l’intervento straniero nel conflitto fratricida spagnolo in corso . Prima della seduta del Vayo aveva fatto distribuire con discrezione alla stampa simpatizzante per la Repubblica, all’esterno del Palazzo, copia delle note consegnate il precedente giorno 15 ai rappresentanti dei governi italiano, tedesco e portoghese, ma il loro testo venne pubblicato integralmente soltanto dal “Journal des Nations” , quotidiano fondato e diretto dall’antifascista italiano barone Carlo a Prato , che a Ginevra era “l’uomo meglio informato di tutti su tutto e senza dubbio il più odiato dai fascisti”, ai quali “fece inghiottire molti rospi e subire molti grandi e piccoli scacchi” ; a causa del suo deciso appoggio alla Repubblica spagnola fu vittima di una montatura scandalistica che nel gennaio 1937 lo fece espellere dalla Svizzera.
L’elevato discorso di del Vayo, destinato a cadere nel vuoto perché gli uomini di peso all’ascolto erano gli stessi che avevano creato il Comitato di non intervento, riunitosi per la prima volta a Londra il 9 settembre, trovò eco anche nel più importante quotidiano italiano che dedicò ampio spazio all’Assemblea e riportò in prima pagina: “Il ministro degli Esteri del Governo di Madrid, Alvarez del Vayo, ha cercato di sostenere che la guerra civile è stata imposta al suo Governo da ‘un gruppo di generali ribelli’. Sul non intervento, Alvarez del Vayo ha detto trattarsi di ‘una mostruosità giuridica’. Egli ha quindi accusato alcune Potenze di aver violato i principî del non intervento fornendo armi ai nazionali e ha sostenuto che la Lega è tenuta a intervenire quando si tratta del problema della sicurezza, anche all’interno di uno Stato. Secondo Del Vayo, la guerra civile che in questo momento insanguina la Spagna è una ‘vera e propria guerra di religione’”. Ovviamente il giornale ometteva di dire che il ministro aveva definito “mostruosità giuridica” la formula del non intervento perché metteva sullo stesso piano il governo legittimo e i ribelli e che comunque “avrebbe dovuto consistere nell’ignorare totalmente la situazione interna di un paese, conservando agli accordi commerciali conclusi in precedenza il loro valore giuridico normale”; mentre nel virgolettato “vera e propria guerra di religione” condensava arbitrariamente il seguente brano: “Come nel Sedicesimo secolo l’Europa si stringeva attorno a due ideali religiosi, cattolicesimo e protestantesimo, oggi si direbbe che gli uomini si dividano secondo due ideali politici: democrazia e regime d’oppressione”. Ci piace pensare che questo articolo abbia sollevato lo sdegno del Vate, che “Dal Vittoriale degli Italiani: nel settembre di Ronchi 26-1936” mandava “Al Capo del Governo, al Capo d’Italia Benito Mussolini in Roma” un messaggio manoscritto nel quale fra l’altro scriveva: “O Compagno, non ti insudiciare nel rivolgerti alla gravedente Cloaca di Ginevra. Irremovibile sii frenando la tua pacata ilarità” , dimostrando ancora una volta di mancare del più elementare senso del ridicolo.
La figura di Patriarca salì alla ribalta diplomatica nella quinta seduta del Comitato plenario del non intervento, svoltasi al Foreign Office di Londra la mattina del 9 ottobre 1936 per esaminare le denunce del governo della Spagna repubblicana. Il comunicato ufficiale della seduta riferiva che “Il delegato italiano [Grandi] dopo aver confutato e respinto energicamente tutti i punti dei documenti spagnoli che accusavano il suo Governo, ha dichiarato che quelle asserzioni erano del tutto fantastiche e prive di ogni fondamento” . Segnatamente alla “deposizione di un certo Vincenti (sic) Patriarca, preso prigioniero nei pressi di Talavera”, Grandi – con notevole impudenza – fece notare che egli “era già fuori delle acque territoriali italiane prima della imposizione dell’embargo. In tutta la deposizione del Patriarca non c’è un solo elemento o una sola notizia che si riferisca a una data successiva a quella del 28 agosto [giorno in cui il governo italiano proclamò un embargo fittizio su tutte le armi e munizioni dirette alla Spagna]” . Questa volta il quotidiano milanese, sotto l’eloquente titolo a quattro colonne Le schiaccianti requisitorie italiane che stroncarono la manovra sovietica a Londra, riportava alla lettera un ampio stralcio dell’intervento di Grandi, “Vincenti Patriarca” incluso.
A Madrid, intanto, i funzionari dell’ambasciata Usa si erano attivati per ottenere il rilascio del prigioniero. Le notizie di stampa avevano sollevato un notevole interesse nei lettori sulla vicenda e il 12 ottobre 1936 il segretario di Stato, Cordell Hull, mandava a Wendelin il seguente telegramma: “L’interesse della pubblica opinione sul caso Patriarca si allarga di continuo e ci sono pervenuti crescenti, urgenti appelli a suo favore. Vi incarichiamo perciò, in aggiunta ai passi che avete già effettuato, di portare il caso Patriarca all’attenzione di Largo Caballero nel suo ruolo di Primo ministro e ministro della Guerra e di chiedergli assicurazioni che Patriarca non sarà giustiziato. Potete informarlo che la pubblica opinione americana condivide il giudizio del proprio governo che le leggi di guerra internazionalmente riconosciute non sanzionano l’esecuzione dei prigionieri, e che se Patriarca fosse giustiziato ciò solleverebbe senza dubbio un’ampia reazione di ostilità nel popolo americano così ben disposto (sic) nei confronti del governo repubblicano spagnolo.
Abbiamo appena ricevuto un telegramma dal ‘Comitato delle mille madri’ [Committee of One Thousand Mothers] organizzato per salvare la vita a Patriarca che incita a fare ogni sforzo ‘per trasferirlo nel carcere di un territorio neutrale e venga presa una immediata decisione sull’argomento’. Se lo riterrete opportuno potete citare questo appello al Primo ministro come indicatore dell’opinione pubblica americana” . Non abbiamo trovato traccia di questo fantomatico “Comitato delle mille madri”, ma è facilmente intuibile il peso politico che poteva esercitare sul governo la potente comunità italoamericana.
Wendelin ottenne subito un incontro con Álvarez del Vayo e il giorno seguente poteva telegrafare al segretario di Stato che “per riguardo all’interesse manifestato dal governo degli Stati Uniti Patriarca non sarebbe stato giustiziato”; del Vayo però raccomandava a Wendelin di considerare questa informazione “strettamente confidenziale per evitare l’interesse della stampa”. Una fuga di notizie, infatti, avrebbe reso difficile proteggere il prigioniero “[da]gli sforzi individuali per ucciderlo dovuti all’accanimento della popolazione contro gli aviatori ribelli”; assicurava, inoltre, che “Patriarca sarebbe stato trattato con ogni riguardo” e che “gli avrebbe fatto avere un permesso per consentire all’ambasciata di mandare gli alimenti adatti per la sua indisposizione intestinale”. In via del tutto riservata del Vayo anticipò a Wendelin che entro due settimane avrebbe suggerito a Largo Caballero di trasferire il prigioniero sotto la custodia dell’ambasciata Usa, per evitare i rischi di una malaugurata uccisione; si rammaricava di non poterlo fare subito per timore della pubblica ostilità e anche per l’opposizione di altri membri del governo . Di certo non era favorevole al rilascio Indalecio Prieto, il quale – come vedremo – lo avrebbe volentieri visto fucilato.
Il 6 novembre 1936 Wendelin telegrafò a Cordell Hull che Patriarca era appena arrivato “al sicuro in ambasciata”; aggiungeva che “non erano state poste condizioni al suo rilascio” e che le autorità spagnole avevano chiesto il massimo riserbo con la stampa “per non mettere a repentaglio la sicurezza dell’ambasciata Usa” .
La data e le condizioni del rilascio mostrano qualche incongruenza. Nelle sue memorie Patriarca scrive che i carcerieri lo consegnarono a Wendelin il 25 novembre perché il diplomatico gli ricordò il buon auspicio del giorno del Ringraziamento, e il corrispondente dell’Associated Press, che viveva nell’ambasciata e godeva della stima e della confidenza dei funzionari, afferma che Patriarca fu scambiato con un pilota polacco combattente dell’aviazione repubblicana . Una documentata saggista, citando fonti d’archivio, scrive che “fu scambiato con un pilota iugoslavo catturato dai Nazionali” ; comunque siano andate le cose lo scambio è verosimile poiché un ministro della Repubblica, a guerra in corso, scriveva: “i ribelli hanno sempre dimostrato un grande interesse per lo scambio di aviatori prigionieri. E dato che noi abbiamo fornito all’uopo tutte le facilitazioni possibili, questi sono i soli scambi effettuati con una certa facilità”; e aggiungeva: “si tratta naturalmente di aviatori italiani e tedeschi, gli unici che utilizzino: assai di rado cade un aviatore spagnolo” .
Giunto all’ambasciata Usa Patriarca venne alloggiato in camera con un fattorino; si adattò subito al nuovo ambiente e divenne “uno dei più vivaci ospiti dell’ambasciata” . Avendo recuperato un po’ della sua spavalderia si precipitava in giardino ogni volta che si svolgeva un combattimento aereo: “indicava molto eccitato gli errori nelle manovre” ed esclamava che se fosse stato là per aria “gli avrebbe dato, per Dio, una buona lezione” .
Il 27 novembre Patriarca fu evacuato in incognito da Madrid e imbarcato con altri profughi americani sull’incrociatore Usa Raleigh a Valencia . Dopo tre giorni di navigazione e uno scalo a Barcellona per caricare altri profughi, la nave giunse a Marsiglia. Prima di sbarcarlo Wendelin gli consegnò il passaporto e trentacinque dollari raccomandandogli di recarsi con il primo treno all’ambasciata Usa di Parigi, dove avrebbero predisposto il suo rimpatrio. Da Parigi Patriarca fu mandato al consolato Usa di Le Havre in attesa dell’imbarco e il console gli domandò se preferiva attendere il denaro per il viaggio da Washington, oppure se accettava di essere imbarcato come marinaio; scelse la partenza immediata sul piroscafo Manhattan e il 10 dicembre arrivò nel porto di New York. Prima ancora di sbarcare abbracciò il padre, che era salito a bordo con i piloti dei rimorchiatori, e venne accolto come una star da giornalisti e fotografi ai quali “denunciò il trattamento che aveva ricevuto dalla Repubblica spagnola durante la prigionia. Lodò pubblicamente Franco e assicurò che i ribelli avrebbero ottenuto la vittoria perché ‘rappresentavano il vero popolo spagnolo’ mentre i repubblicani lottavano ‘soltanto per la Russia’. Con sottile ironia dichiarò che ‘non aveva ancora vissuto abbastanza avventure’ e, poiché ‘fare il barbiere non era di suo gradimento’, non intendeva usare le forbici nel negozio di suo padre nel Bronx” .
L’ambiente e le opportunità che lo accolsero al suo rientro non potevano soddisfare le aspirazioni di un uomo che dall’adolescenza viveva per volare. Passata la sbornia fugace della notorietà con interviste e conferenze che non gli davano di che vivere, forte della sua esperienza di guerra tentò di entrare nell’aviazione militare Usa, ma gli fu risposto che doveva frequentare il prescritto corso di due anni. A quel punto decise di ritornare nella Regia Aeronautica italiana e domandò per lettera l’aiuto del comandante del suo vecchio stormo di Gorizia. Privo di un lavoro stabile – che forse non gli importava più di tanto trovare, al di fuori dell’aviazione – continuò ad aiutare il padre nel negozio per racimolare qualche soldo, ma era una condizione che lo mortificava. Il suo livello di frustrazione può essere colto alla fine di una lunga intervista che rilasciò al giornalista Avery Strakosch e che venne pubblicata in maggio e giugno 1937 sul mensile a larga tiratura “American Cavalcade”; riproposta di recente in lingua italiana è curiosamente priva di ogni citazione d’autore e di crediti editoriali : “E così, sebbene abbia quattro anni di addestramento in due delle migliori scuole italiane, su un aereo da caccia fra i più moderni e un’esperienza di disciplina unica per aver combattuto due guerre in un anno, nel mio Paese non ho diritto neanche a una semplice licenza per il volo turistico. Secondo la regolamentazione in vigore negli Stati Uniti, dovrei frequentare nuovamente una scuola di volo e ricominciare daccapo tutto il corso di pilotaggio. Potrei trovare lavoro come autista, come marinaio su uno yacht, come verniciatore in qualche cantiere a 70 centesimi l’ora, ma guadagnare da vivere col lavoro che meglio conosco, cioè il volo, quello proprio no! ‘Sono stato messo a terra’, come si dice nel gergo aviatorio. Non vi sono parole più tragiche per un uomo che vive solo per volare!”
Nel luglio 1937 venne convocato dal consolato italiano a New York dove il console e l’addetto militare – lo stesso che aveva conosciuto nel 1933 – si fecero raccontare nei dettagli le vicende che aveva vissuto dopo la cattura in Spagna. Al termine del suo rapporto gli confermarono che era stato accolto di nuovo nella Regia Aeronautica e gli raccomandarono di darne notizia soltanto ai suoi genitori. Il 27 luglio 1937, a bordo del Saturnia, salpò per l’Italia rotta Azzorre, Lisbona, Gibilterra, Algeri e Napoli dove sbarcò il 3 agosto. Le formalità da espletare, visita medica e colloqui burocratici al ministero di Roma, furono di breve durata e tre giorni più tardi venne accolto con calore dai colleghi del 4° Stormo a Gorizia.
L’entrata dell’Italia in guerra, il 10 giugno 1940, sorprese Patriarca a Torino Caselle dove effettuò missioni di pattuglia e di scorta ai bombardieri fino all’8 luglio, quando la sua squadriglia fu trasferita a Treviso e successivamente a Napoli Capodichino. Gli eventi bellici lo portarono quindi sul fronte albanese dove si ammalò gravemente di polmonite. Rimpatriato e curato, rifiutò la convalescenza e dopo un paio di tappe sul territorio nazionale e una sosta in Albania venne inviato sul fronte russo cadendo nuovamente ammalato. Nel novembre 1941 fu assegnato alla 303ª Squadriglia “Caccia notturna” di Capodichino e abbatté un bombardiere inglese pochi giorni prima che i giapponesi attaccassero Pearl Harbour. La dichiarazione di guerra di Italia, Germania e Giappone agli Usa sconvolse Patriarca che ora correva il rischio di dover sparare contro i suoi connazionali. Durante una breve licenza nell’estate del 1942 conobbe sulla spiaggia di Napoli la ragazza che sarebbe divenuta la compagna della sua vita e che sposò a fine gennaio del ’43.
Il 19 luglio 1943 centinaia di bombardieri americani colpivano per la prima volta Roma; la notizia della distruzione della basilica di San Lorenzo con il papa che si aggirava fra le macerie fece il giro del mondo e commosse la cristianità. Dal suo esilio messicano l’ex ministro Prieto commentò il fatto tre giorni più tardi nell’articolo che abbiamo citato, intitolandolo significativamente Vincenzo Patriarca. Dopo aver ricostruito con alcune imprecisioni la vicenda spagnola del pilota egli osserva che “è penoso che le bombe cadano sulla basilica di San Lorenzo; a me, comunque, impressiona di più che cadano su scuole, ospedali e orfanotrofi”, poi – ignorando che il comando alla fine del 1942 aveva allontanato Patriarca dalla zona di combattimento a causa della sua imbarazzante condizione di italoamericano –, conclude: “Se i nordamericani dovessero abbattere un aereo italiano e catturare il pilota, provino a domandargli se si chiama Vincenzo Patriarca. Allo stesso modo in cui tornò a bombardare la Spagna, dopo essere stato liberato a Madrid, è possibile che adesso combatta con i suoi correligionari fascisti contro la bandiera che sette anni fa sventolò per salvare la pelle. Se lo trovano lo fucilino: Ha la stoffa del traditore”.
L’8 settembre colse Patriarca all’aeroporto di Treviso, occupato il giorno 12 dai tedeschi; al colonnello della Luftwaffe che gli proponeva di combattere nel suo schieramento rispose che di guerra ne aveva avuto abbastanza e fu posto agli arresti. Il seguente tentativo di fuga naufragò e Patriarca fu deportato in Polonia, poi a Pillau sul mar Baltico. Per una serie di romanzesche casualità, che egli narra nelle sue memorie, mediante l’interessamento di Vittorio Mussolini nel gennaio ’44 incontrò al consolato di Berlino Filippo Anfuso che lo fece rientrare in Italia.
La fortuna lo assistette anche nell’anno che trascorse nei ranghi della Repubblica sociale e tornato a Napoli, dopo la fine della guerra, lavorò a Capodichino per tre anni con gli americani prima di fare domanda di rientro attivo nell’aeronautica italiana, un impegno che svolgerà per altri dieci anni e si concluderà con un po’ di amarezza: “Il 12 gennaio 1959 una comunicazione del Ministero dice che sarò congedato per raggiunti limiti d’ età. A 46 anni sono troppo vecchio per poter continuare a volare! Il 12 vado a Capodichino e mi presento al Comando, sono ricevuto dall’Ufficiale Comandante che cerca di convincermi a rimanere con mansioni di ufficio : rifiuto. L’Ufficiale aggiunge qualche bella parola, lo saluto, mi consegna il foglio di congedo. Ritorno a casa, tolgo l’uniforme, la stendo accuratamente sul letto, mi siedo e la fisso”.