Giovedì 24 gennaio un grosso volatile fece letteralmente esplodere, urtandolo, il tettuccio dell’abitacolo del mio reattore, costringendomi ad effettuare un atterraggio d’emergenza. I giornali commentarono lo strano avvenimento in maniera più o meno pittoresca, in realtà l’avventura non fu poi così drammatica come alcuni vollero descriverla. Si è trattato comunque, di un incidente del tutto inconsueto, che, aggiunto a un altro, ancora più straordinario, accaduto al sottoscritto quasi due anni fa, ha fornito ai miei colleghi lo spunto per definirmi il più fortunato pilota da caccia dell’aeronautica italiana.. E può darsi che io lo sia davvero.. Con l’autorizzazione dei miei superiori acconsento volentieri a fare il racconto delle mie due “esperienze”: prego però il lettore di considerare che sono un militare e non uno scrittore..
Quel giovedì mattina, dunque, io ero in volo sul cielo della base di Pratica di Mare, a una trentina di chilometri da Roma, in pattuglia con il mio comandante di squadriglia, capitano pilota Aldo Melotti, e col tenenteFerdinando Cozzolino. Con i nostri “Sabre” F.86 volavamo a non più di 150 metri di quota, nella formazione cosidetta “a bastone”: uno dietro l’altro, io in fila indiana, muso contro coda a tre o quattro metri di distanza uno dall’altro. Io occupavo la terza posizione. Attraverso il parabrezza corazzato io guardavo il cono di scarico del reattore di Cozzolino, che mi precedeva alla breve distanza che ho indicato. Volavamo alla velocità di circa 900 chilometri all’ora, poco più poco meno: in formazione acrobatica stretta l’attenzione del pilota è tutta concentrata nel mantenere l’esatta posizione.
LA POIANA
Stavamo preparandoci per passare dalla formazione “a bastone” ad un altra formazione quando intravvidi un ombra nera davanti al parabrezza. Una frazione di secondo più tardi avvenne una fortissima esplosione, una specie di boato. Fui investito da un potente getto d’aria. Qualcosa mi colpì violentemente sotto l’occhio destro. Il tettuccio era andato in frantumi. Lì per lì, non fui in grado di capirne la ragione. Per qualche istante persi il controllo del reattore. Ma mi ripresi subito. Il primo pensiero fu: avaria al motore. Istintivamente, per evitare la collisione, “uscii” sulla destra della formazione e cabrai decisamente per guadagnare la quota necessaria per un eventuale lancio col seggiolino munito di paracadute che fa parte dell’attrezzatura di bordo dell’F.86.
Mi convinsi però, quasi immediatamente, che il motore funzionava con perfetta regolarità. Chiesi comunque atterraggio d’emergenza e mi apprestai a compiere la non facile manovra. L’abitacolo di un aviogetto che rimanga improvvisamente privo di tettuccio diventa, infatti, un ambiente tutt’altro che comodo: direi una specie di bolgia infernale in cui il vortice d’aria tormenta l’aviatore rendendone faticosi i movimenti. Invece del solito rumore ovattato si sente in pieno l’assordante rumore del reattore. Inoltre la polvere sollevata all’interno dal risucchio mi accecava, costringendomi ad ad abbassare la testa e a nasconderla dietro dietro al parabrezza. Avevo capito che la causa dei miei guai era stato un volatile investito a tutta forza e finito a pezzi dentro l’abitacolo: qua e la c’erano i segni della triste fine del povero animale.
Come Dio volle riuscii ad entrare in campo ed effettuai un atterraggio regolare. Scesi dall’abitacolo stordito ma illeso. La ferita allo zigomo -una cosa da niente- era forse l’effetto di una scheggia; forse l’ultima beccata del volatile ai danni del suo strapotente investitore. L’occhio era salvo e questo mi bastava. Del tettuccio non era rimasto il benchè minimo frammento. Esaminando le penne rimaste qua e là dell’abitacolo, alcuni esperti dissero che doveva trattarsi di una specie di rapace: altri di una semplice anitra selvatics. Poiana, anitra o altro, non potei esimemri dal partecipare ai colleghi i segni del mio gaudio offrendo da bere secondo le tradizioni.
Dicevo che i miei colleghi mi definiscono un pilota fortunato. Secondo loro rappresento un caso estremamente raro. Rievocando l’incidente del 28 marzo ’55 debbo riconoscere che non hanno torto: tutt’altro. Più che di un incidente, quella volta si trattò di un autentico disastro. Il “Vampire” sul quale avevo appena decollato precipitò a terra, esplose in mille pezzi ed io rimasi illeso. Il pezzo più grosso rinvenuto dopo la caduta era il sottoscritto il quale, dopo tutto, non supera la statura di un metro e 60: una statura niente affatto eccezionale.
BAGNO NEL CHEROSENE
Il 28 marzo del ’55 facevo parte di una formazione di 40 “Vampires” che decollarono dall’aeroporto di Capodichino per sorvolare Roma in parata aerea: era l’anniversario della fondazione dell’aeronautica militare. Ma era destino che non partecipassi a tale onore. Il “Vampire” è un reattore un po’ vecchitto sul quale volavo ormai da molto tempo. Effettuai un decollo regolare, mi sollevai fino a una quota di cinquanta metri e subii un’improvvisa “piantata” di motore: una situazione quasi disperata. Il “Vampire” infatti precipitò poco oltre i limiti del campo, fra due filari di alberi, disintegrandosi completamente: partì per prima un’ala, poi tutto il resto. Il motore pesante sette quintali fu ritrovato ad 80 metri dal punto d’impatto. Due tonnellate di “cherosene” inondarono il terreno circostante senza esplodere. Ricordo di aver udito un fracasso orrendo: ebbi la sensazione di roteare vorticosamente su me stesso e vidi rosso per qualche secondo ma non mi feci nulla.
Mi trovarono seduto sul paracadute, vicino a un albero, col casco spaccato ma con la testa intatta.. Cercai la cabina ma non la trovai era ridotta ad un mucchio di ferraglia. Avevo fatto un bagno nel cherosene, accusavo un dolore in una costola ed ero un po’ stordito, ma niente di più.
Nessuno, me compreso, è mai riuscito a capire da dove fossi uscito. Qualcuno, al solito, fece riferimento alla mia statura tutt’altro che abbondante. Ma io spiego la cosa in un modo un po’ diverso. Quando partii per entrare in aeronautica la mamma mi diede una catenina con l’immagine benedetta della Madonna di Loreto. Volle mettermela lei stessa intorno al collo e mi fece promettere che non l’avrei mai tolta: ho mantenuto la promessa scrupolosamente. Non cambierei il mio mestiere di pilota con nessun altro al mondo(fosse anche il più attraente e remunerativo)
Andrea Favretto