Cesti Pietro nato il 29/11/1919
Lettera inviata il 18/06/2010 da Pietro Cesti , allievo pilota giunto nell’agosto 1941 alla Scuola Caccia di Gorizia, al suo istruttore Raffaele Chianese
Caro Chianese
Non so descrivere quale commozione provo nel scriverti, nel ricordare quando ti ho conosciuto, il tuo modo di insegnare a volare, gentile e molto convincente e dimostrativo. Al di fuori di Nicola ed il Maresciallo romagnolo di Faenza ed anche sbruffone. Il Tenente Belo’ faceva paura. Ti ricordo come fossi arrivato ora dalla scuola di Foggia e di Rimini: l’ aeroporto, con le spalle alle 12, alla destra la palazzina comando, alla sinistra gli hangr degli aerosiluranti e dopo, nella stessa linea, 1’hangar della Scuola Caccia, sedie , poltrone, allievi in attesa del volo istruttori Traverso, Vacchelli tenente. Il comandante Capitano Morsciani di Bologna, sempre scherzoso e gentile, il Tenente Belo’ coi Fiat G. 50, il Capitano Pezze’, comandante la scuola e ultimo stadio (periodo) con i Macchi 200. Con il Fiat C R32, causa lo stesso rifornimento che fecero a te in Spagna e che ti fece cader prigioniero. Di questo, dopo tanti anni, la nostra rivista pubblico’ la storia che io scrissi e che ti mando copia. Da Gorizia Pezze’ mi mando’ al 51° Stormo dal Colonnello Remondino che stava formando lo stormo con i Macchi 202 per partire per Gela, Sicilia, ed operare su Malta. Tutto il resto lo raccontero’ in seguito, ora ti invio le mie foto, forse ti ricorderai di me. Di te ho il ricordo piu’ vivo. Non so piu’ perche’ ti avevano fatto girare i pendicoli e nel pomeriggio in una prova aereo arrivasti veloce da sud, in volo radente e “avione” a 90 gradi, muso in cabrata e l’erba che volava al cielo. Nessuno fiato’ e tu atterrasti come non fosse accaduto nulla e con tutta calma, come insegnavi tu. Meraviglioso ricordarti e scriverti e farti tanti, tanti auguri, abbracciandoti.
Pietro Cesti detto “Piraza”
Ps. Insieme a me ricordo un altro allievo della Scuola Caccia, il M.llo Aldo Barbaglio (classe 1919), nominato poi Sottotenente e assegnato al 51° Stormo, deceduto nell’estate 2010.
Scuola Caccia di Gorizia 14/03/1940
Le recenti vicende legate alla caduta di velivoli per incidente sopra o nei pressi di edifici mi hanno fatto tornare alla mente due episodi dei quali fui mio malgrado protagonista. Nell’estate 1941 mi trovavo alla scuola di alta acrobazia nell’aeroporto di Merna, vicino Gorizia, dove fui incaricato di eseguire un volo di prova con un Fiat CR.32 che era stato riparato. Mentre aspettavo di salire a bordo gli specialisti lo stavano rifornendo: ricordo che un getto di benzina fuoriusci’ dal tubo ed invase il posto di pilotaggio, tanto che potei decollare solo quando si penso’ che il carburante fosse evaporato. A circa 1.500 metri di quota, nell’eseguire un tonneau in piedi con scampanata, vidi una vampata uscire dal motore e, mentre l’abitacolo veniva invaso dalle fiamme, sentii un’esplosione in fusoliera. Mi venne in mente un incidente nel quale il pilota, lanciatosi col paracadute con la tuta gia’ incendiata, fu trasformato in una torcia umana e fini’ arso vivo: il cervello mi ordino’ quindi di aspettare qualche istante prima di lanciarmi. Quando lo feci, mentre precipitavo verso terra in posizione eretta con le mani appoggiate al ventre ed aspettavo ad occhi chiusi lo strappo di apertura del paracadute, mi parve che questo tardasse troppo ed aprii gli occhi. Vidi volteggiarmi davanti il moschettone strappato e mi resi subito conto che dovevo azionare la maniglia di sicurezza, che era a portata della mia mano destra. Dopo averla tirata il paracadute si apri’ subito e con mio grande sollievo mi trovai a dondolare lentamente verso l’Isonzo, tanto che pensai piu’ volte che sarei caduto in acqua e che avrei dovuto togliermi le scarpe – cosa che pero’, vedendomi spostato dal vento, non feci. Il guaio comincio’ quando sulla sponda del fiume notai una linea di pali di alta tensione. La mia speranza di riuscire a superarla fu presto delusa perché‚ il vento mi manteneva sopra di essa ed io mi trovai terrorizzato dal pensiero di finire fulminato. Pensai di tentare di dirigere il paracadute e cominciai a dondolanni freneticamente (bisogna ricordare che i paracadute Salvador allora in dotazione tenevano il pilota agganciato per la schiena, cosi’ che le corde restavano fuori della portata delle mani) finche’‚ riuscii ad agganciarle e, tirandole da una parte e dall’altra, il paracadute mi sposto’ sulla sinistra, consentendomi di evitare i fili. Finii in compenso addosso ad un contadino che arava coi buoi, sfiorandogli la testa coi piedi e atterrando sul terreno appena arato. Recuperai il paracadute e vidi che la corda del moschettone era avvolta alla cintura di fissaggio e non aveva quindi potuto scorrere: la mia abitudine di non agganciare la chiavetta nell’apposito anello ma di passarla nell’intelaiatura metallica della fusoliera ed agganciare la chiavetta nella corda stessa mi aveva salvato la vita. Facendo acrobazia il laccio si era allargato, poi la fiammata aveva incrinato la corda che nello strappo d’apertura del paracadute si era strappata. Quando arrivo’ l’ambulanza mi fu subito chiesto perche’‚ avessi tardato tanto ad aprire il paracadute. Risposi che non avevo tardato io ma che il moschettone si era rotto. Impossibile, risposero i tecnici: “La corda sopporta tre quintali a strappo”. Testimoni oculari mi raccontarono poi che l’aereo fumante si era prima diretto verso il campo, ma che solo dopo qualche istante avevano visto il paracadute. C’era stato un fuggi fuggi perche’ il CR 32 puntava verso i Macchi 202 del 6° Gruppo che dovevano andare in Sicilia per operare su Malta, ma poi, giunto a circa duecento metri di quota, aveva virato a destra andandosi a schiantare sul prato senza causare nessun danno. Nell’abitacolo fu poi trovato il pezzo di moschettone con la chiavetta stretta al laccio, ma fui pregato di non riferire il particolare nella relazione dell’incidente per evitare un susseguirsi di visite ed analisi da parte dei tecnici del Ministero sull’efficienza e validita’ del moschettone. Non avendo avuto altra alternativa che ricorrere al paracadute, solo il caso mi aveva salvato la vita e aveva evitato una catastrofe immane. Un anno dopo, in forza al Gruppo complementare del 51° Stormo sull’aeroporto di Ciampino Sud, dovetti nuovamente lancianni. Era quasi mezzogiorno quando il Capitano Montanari, che comandava il Gruppo, mi ordino’ di provare un Macchi 200 riparato. Facendo acrobazia in salita verticale, a duemila metri di quota, improvvisamente il motore perse potenza e l’aereo, dopo diversi capovolgimenti non rispose piu’ ai comandi e cadde in vite piatta rovescia. Pur sapendo che, una volta entrato in quella vite, il MC.200 non ne usciva piu’, tentai varie volte di rimetterlo in assetto normale di volo. Inutilmente: i comandi erano divenuti inefficaci per cui, visto che l’aereo continuava ad avvitarsi e a scendere verso terra, decisi di lanciarmi col paracadute. Mi trovavo a testa in giu’ e credevo che questo avrebbe facilitato il compito. Invece, per quanto tirassi con tutte le mie forze aggrappato alla carlinga con le braccia fuori dell’abitacolo, non mi riusci’: la forza centrifuga mi teneva schiacciato dentro. Inutilmente mi tirai dentro e ripresi i comandi. Ripetei per tre volte la manovra, ma fu tutto inutile ed avendo perso molta quota fui preso dal panico. Lo spettro della morte confondeva i miei pensieri, vidi mia madre che piangeva, intravidi il mio funerale, poi fra tutti fulmini che mi traversavano il cervello ebbi un’illuminazione: carrello e flap fuori, tutto motore. Quasi istantaneamente e l’aereo si fermo’ col muso rovesciato leggermente verso terra e io mi trovai fuori. Ero a circa 45.0 metri: contai fino a dieci, poi tirai la maniglia di sicurezza e il paracadute si apri’. Dopo pochi istanti toccai terra sano e salvo poco lontano dall’aereo che, sempre rovesciato, si era piantato nel prato di erba medica che costeggiava la strada dell’aeroporto. Se avesse fatto una leggera virata a destra, come il CR 32 di Gorizia, sarebbe precipitato sulla palazzina della mensa dove molti miei colleghi stavano pranzando. Gli impulsi del mio cervello mi avevano salvato la vita ed il caso aveva evitato una catastrofe. Tutto questo mi fa credere che quando si sta toccando la morte l’apparato sensitivo, in frazioni di tempo minuscole, indichi la via della salvezza. Poi, come in tutte le catastrofi, decide il caso. Se a Gorizia avessi procurato un’immane catastrofe, se a Ciampino avessi causato la morte dei miei colleghi, sono certo che oggi avrei ancora un profondo dolore nell’anima ancora un profondo dolore ma non mi sentirei in colpa. Il pilota che si accinge a decollare sa che il caso potrebbe anche troncare la sua vita ma continua a volare per fare il suo dovere di Italiano e di soldato.
Pietro Cesti