Era sabato 18 marzo 1944, una giornata di sole alla fine dell’inverno. La seconda guerra mondiale, che aveva arrecato lutti immani all’Europa intera, non risparmiò neppure le nostre zone che tuttavia non si situavano a ridosso del fronte. Quel giorno fatale un inatteso attacco degli aerei americani all’aeroporto goriziano provocò numerose vittime.
Mancavano alcuni minuti alle undici del mattino. I campi tra Merna, Orehovlje, Rupa e Peč (Peci) dalla parte sud dell’aeroporto e Vertojba e Sant’Andrea dalla parte nord-est brulicavano di persone (in prevalenza uomini anziani, donne e bambini) intente ad accudire ai vari lavori agricoli. La maggior parte stava piantando delle patate. D’improvviso, dalla parte di Dol (Vallone) e di San Michele del Carso apparve un grosso stormo di bombardieri americani B24 (noti sotto il nome di Liberator) accompagnati da caccia bimotori a due code P38, i famosi “Lockeed Lightning”.
La gente non prestò loro particolare attenzione, poiché gli aerei molto spesso sorvolavano il Goriziano diretti verso l’Austria e la Germania per le loro incursioni di bombardamento. Nessuno dunque ebbe alcun presentimento di ciò che li attendeva negli attimi successivi.
Forti di questa convinzione, non si accorsero neppure che gli aerei volavano molto più bassi del solito. In un istante la bella giornata di sole si trasformò in un inferno. Gli aerei incominciarono a lanciare delle bombe particolari sull’aeroporto e sulle zone circostanti, non le classiche bombe ad alto effetto distruttivo, ma quelle ad effetto dispersivo chiamate “spezzoni” e utilizzate per la distruzione degli aerei negli aeroporti e per gli attacchi alla cosiddetta “forza viva”. Non appena queste bombe toccavano il suolo, scoppiavano lanciando in tutte le direzioni un’infinità di schegge. Se qualcuno si trovava allo scoperto, difficilmente poteva salvarsi.
Quest’attacco, infatti, causò molte vittime proprio tra la popolazione civile rurale, soprattutto tra gli abitanti di Merna. Gli abitanti di Breg, piccolo borgo di Merna, pagarono il prezzo più alto col maggior numero di vittime (30), nel vicino paese di Orehovlje ce ne furono 5, a Sant’Andrea 7 e a Vertojba 4. Tra i morti e i feriti ci furono parecchie donne e bambini e non si salvarono neppure gli animali da traino.
I motivi che spinsero gli alleati ad effettuare quest’attacco furono, e rimangono, un’incognita. Autorevoli storici hanno cercato di venirne a capo senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente. Sorprende soprattutto l’intensità dell’attacco su di una zona ove in quel periodo c’erano pochi aerei e quand’anche fossero stati più numerosi, non sarebbero potuti intervenire nelle battaglie sul fronte. La linea del fronte più vicino all’aeroporto correva, infatti, presso Monte Cassino a sud di Roma. Gli aerei erano presenti in massa sull’aeroporto goriziano solo prima dello scoppio della guerra, quando vi operava una scuola per piloti. Alcuni aerei rimasero presso l’aeroporto goriziano anche durante i primi anni di guerra, ma dopo la caduta del fascismo, la successiva occupazione tedesca di queste zone e la creazione della Repubblica si Salo’ la maggior parte degli aerei fu trasferita in altri aeroporti. Il 12 settembre 1943, dopo lo sgretolamento dell’Italia fascista, i partigiani occuparono l’aeroporto e incendiarono alcuni aerei prelevandone prima le mitragliatrici e gli altri armamenti. Un aereo fu anche sequestrato e trasferito ad Ajdovščina (Aidussina). Alcuni giorni più tardi i Tedeschi giunsero a Gorizia portandosi appresso alcuni aerei, ma si trattò di un numero insignificante che sicuramente non giustificava un attacco così cruento da parte alleata. L’attacco non arrecò grave danno all’aeroporto poiché, come si è detto, non furono utilizzate bombe ad alto potenziale distruttivo. Pochi giorni prima dell’attacco, i Tedeschi riuscirono a nascondere i pochi aerei negli hangar costruiti dagli operai della TODT al di fuori della zona dell’aeroporto, in prevalenza sul campo di Vertojba. Il bombardamento causò molte vittime proprio tra le fila di questi operai che erano stati mobilizzati per questo lavoro. Si dice che ci furono intorno ai 100 morti, il numero esatto non sarà mai noto, poiché i Tedeschi non hanno mai pubblicato l’elenco delle vittime (mancava ancora più di un anno alla fine della guerra).
Sull’attacco in sé, sul caos generale e le cruente conseguenze che il bombardamento lasciò dietro di sé, ci ha fatto un lungo racconto uno dei testimoni oculari della tragedia, l’allora ventenne Davorin Klančič di Merna.
Davorin si trovava con i partigiani sul Carso e la sera prima dell’attacco giunse con due compagni, per vie recondite, nella natia Merna. Dopo lunghi mesi di assenza rientrò finalmente in casa e vi trascorse la notte. I Tedeschi avevano a Merna una loro postazione, ma erano in pochi e non pattugliavano spesso il paese. Il mattino successivo Davorin fece visita al cugino che abitava vicino, anch’egli partigiano, nascosto in casa e convalescente per un attacco di polmonite. Mentre stava rientrando, arrivarono i bombardieri che iniziarono a riversare alla cieca il loro carico mortale. Gli abitanti correvano in tutte le direzioni alla ricerca di un rifugio adeguato. Alcuni ci riuscirono, ma altri purtroppo furono raggiunti dalle schegge. Non si udivano dei boati, come accadeva solitamente durante i bombardamenti. Oltre al rombo dei motori, si sentiva soltanto una sorta di stridore. Erano udibili solo in lontananza alcune singole sorde esplosioni. Si trattava probabilmente di proiettili sparati dai pochi cannoni antiaerei dislocati intorno all’aeroporto. Tutto finì in pochi minuti. Appena la gente uscì dai propri rifugi costatò con orrore le conseguenze del bombardamento. Nel paese risuonavano grida, pianti e disperate richieste d’aiuto. Le madri cercavano i propri figli e i figli le proprie madri. Davorin racconta come una madre, sorpresa sul campo assieme al suo bambino dalla tempesta di fuoco, gli corse incontro disperata. Nella confusione, presa dal panico e a causa del denso fumo, non era riuscita a trovare il figlio. Davorin si recò sul campo con un amico a cercarlo e lo trovò morto in un solco. Aveva appena cinque anni. Anche i parenti di Davorin, presso i quali si nascondeva il partigiano ammalato, furono colpiti dalla tragedia. Il padre fu gravemente ferito non lontano dalla propria casa ed il giorno seguente morì in ospedale. La moglie ed il figlio di sei anni furono uccisi in cucina dalle schegge che s’erano infiltrate attraverso la porta aperta. Solo le due figlie riuscirono a fuggire in tempo dalla casa e a mettersi in salvo. Sulla strada fu falciata anche una ragazza quindicenne di Peč che si recava a Merna dove faceva l’apprendista sarta. Lì vicino fu ucciso dalle bombe anche un uomo del Carso che portava della legna a Merna.
I morti ed i feriti furono portati nella chiesa del paese dove furono visitati dal medico militare e dal personale sanitario tedesco. Nei momenti di confusione succedeva addirittura che i feriti venivano portati nella chiesa del paese da partigiani o da collaboratori del luogo che poi cercavano di imitare i gesti del medico per aiutarlo nella medicazione delle ferite. Per fortuna nessuno se ne accorse. I feriti gravi venivano trasportati con le ambulanze dai Tedeschi nell’ospedale di Gorizia. Parecchi perirono nei giorni successivi per le ferite subite.
Quel giorno si trovava all’aeroporto anche l’allora diciassettenne Branko Čermelj di Gorizia, appartenente alle unità lavorative dell’organizzazione TODT. Stava esaminando con un amico dei siluri d’aereo allineati su grandi tavoli nell’hangar situato nella zona meridionale dell’aeroporto. Ad un tratto qualcuno gridò che si stavano avvicinando degli aerei. I due amici si gettarono a terra, ma il primo stormo scaricò il suo carico mortale solo sul paese di Merna e su altri villaggi situati verso la parte bassa dell’aeroporto. Quando gli aerei se ne andarono, giunse in bicicletta trafelato un abitante di Merna gridando che nel suo paese c’erano molte vittime. Branko ed il suo amico corsero immediatamente a Merna e aiutarono la gente del luogo a trasportare i feriti nella chiesa del paese. In quel momento apparve un altro stormo di bombardieri che questa volta scaricarono i loro carichi di “spezzoni” proprio sull’aeroporto. Colpirono però anche le case dell’Eremita, Vertojba ed i quartieri a sud di Gorizia. Nei campi vicino alle case dell’Eremita si trovava, assieme alla mamma e alla zia, anche un bambino di otto anni di Sant’Andrea, di nome Danilo Klanjsček. Tutti e tre si gettarono a terra in un solco, ma purtroppo una scheggia raggiunse ugualmente Danilo perforandogli la guancia destra, attraversandogli la cavità orale e fermandosi poi sotto l’occhio sinistro. Il bambino fu raccolto dai Tedeschi e trasportato con l’ambulanza militare nell’ospedale di via Brigata Pavia a Gorizia. Quell’ospedale accolse anche altri feriti, ma il materiale sanitario e le infrastrutture non erano sufficienti per portare con successo il primo soccorso ai feriti. Mancava persino il siero antitetanico e in tal modo ci furono molti morti per infezione. Danilo rimase in ospedale per tre mesi e si salvò per puro caso. Alcune settimane prima dell’attacco aereo, s’era prodotto una ferita con una lamiera arrugginita. In quell’occasione il medico gli aveva praticato un’iniezione antitetanica e fu proprio quell’iniezione che più tardi gli avrebbe salvato la vita. La scheggia si trovava troppo vicina all’occhio, quindi non poteva essere rimossa: gliela tolsero solo nel 1967, ben ventitre anni dopo il fatidico attacco aereo. Danilo la conserva ancora a casa sua come un cimelio.
Anica Klančič di Merna aveva allora tredici anni. Quel fatidico giorno perse il padre, la madre e il fratello. Anche lei ricorda che gli aerei giunsero in due ondate e ricorda che i Tedeschi avevano detto alcuni giorni prima che, in caso di bombardamenti aerei, non sarebbero state utilizzate bombe pesanti, bensì degli “spezzoni”, poiché nella zona non c’erano impianti industriali. Ricorda anche i funerali che si svolsero nelle ore pomeridiane del giorno successivo. La maggioranza delle vittime trovò sepoltura nelle fosse comuni, solo alcuni furono seppelliti nelle tombe di famiglia. Il padre di Anica invece morì il giorno successivo a causa delle ferite riportate e fu sepolto il lunedì. Anica ricorda anche un particolare alquanto macabro: proprio durante i funerali apparve un grosso stormo di aerei. Nel timore di un nuovo bombardamento, i partecipanti al funerale si dispersero in tutte le direzioni, ma i bombardieri proseguirono il loro volo verso la Germania.