16 marzo 2004
Per la prima volta un pilota del 4° Stormo vola con l’Eurofighter
Testo del Magg. Daniele Picco
È una storia che racconto al presente. Perché è così che la vivo, ogni volta che la mia mente mi fa la grazia di ricordare il giorno in cui ho cavalcato, per la prima volta, il Tifone…
Il 16 marzo del 2004 è uno di quei giorni che non ti puoi scordare.
È un giorno che inizia ben prima di questo stupendo pomeriggio di primavera.
Qualche anno prima, per me, negli Stati Uniti, a bordo della Vipera.
Scelto tra tanti, assieme ad Argo, Lele e il Pibe, fortunati “asfaltatori” della strada su cui oggi arriverà il nuovo cavallo di razza dell’Aeronautica Militare.
Un giorno iniziato qualche decennio fa, per un’intera Organizzazione alla ricerca di un successore davvero degno di prendere il posto del Cacciatore di Stelle.
Eppure, quando assieme al melodioso ululato degli spilloni che gli sono andati incontro per accompagnarlo alla nuova casa, il potente ruggito degli EJ200 del Tifone accarezza le orecchie dell’intero Stormo radunato a festa, il cuore si ferma.
Il mio e quello degli uomini e donne del 4° che, con lo sguardo rivolto al Cielo, siamo infine coscienti che il sogno, faticosamente coltivato, oggi sarà realtà.
Perché il Tifone, dopo tanta attesa, è finalmente arrivato!
Lo osserviamo tutti a bocca aperta, mentre ammiriamo l’armonia con cui danzano in sincrono le superfici mobili di questa fiera mentre si acquieta, dopo il volo di trasferimento da Torino a Grosseto.
Ora so che oggi sarà davvero il mio giorno.
Ma sarà anche il giorno di Lorenzo.
Lo “sperimentatore”. Colui che mi rivelerà chi sia davvero il “Tifone”.
Lorenzo non è un pilota “qualunque”.
Lorenzo è un uomo che conosce molto bene questo piazzale.
Perché ci abbiamo camminato sopra assieme, per tanti anni, da piloti di Gruppo.
Lorenzo è anche un collega di Corso.
Con lui, non tanti anni fa, su un altro piazzale, ho marciato, riso, pianto e giurato fedeltà a un Paese che entrambi amiamo.
Mai, allora, avremmo immaginato di ritrovarci qui, oggi, ai piedi di questa scaletta che mi sembra più alta di una montagna.
Lorenzo è, e sarà sempre, un amico.
Ed è per questo che il mio giorno sarà davvero speciale.
Meraviglioso.
Lorenzo è già salito, legato nel cockpit posteriore.
Mi aspetta col sorriso di chi sa come ci si sente, la prima volta.
Per lui la prima volta è stata qualche anno fa, quando ha iniziato a lavorare al progetto.
Eppure, so che un po’ di emozione c’è anche in lui, ora.
Io, invece, mi faccio guidare al mio seggiolino dai fidati ragazzi di Alenia.
Mi lego, con fatica, quasi mi fossi scordato tutte le volte in cui l’ho fatto, per finta, sugli aeroplani che ancora non sono usciti dai capannoni di Torino, in cui sono nati.
Guardo le immagini colorate del display di sinistra, che mi dicono cosa debba fare per essere pronto.
Lorenzo grida di fare attenzione alle mani, mentre il tettuccio si abbassa e ci isola dal mondo di fuori.
Per un attimo non ricordo nulla.
Poi, per magia, le parole del Cagnone ritornano, una ad una, e mi guidano a fare le cose che devo fare, per accendere il mostro, ancora sopito.
I motori si avviano così in fretta che faccio fatica a capire che loro, a differenza mia, sono già pronti.
Sono stupito che così tanta potenza faccia così poco rumore.
Almeno qui dentro.
In effetti, guardo la gente di fuori con le mani sulle orecchie e capisco che fuori è frastuono. Lorenzo mi guida nei pochi controlli che dobbiamo svolgere per liberare finalmente il Tifone al suo regno.
Poche parole alla torre e le ruote iniziano a rotolare su questo piazzale che, nel mio cuore, è casa. La pista è più vicina di quanto ricordassi.
O forse il tempo scorre a modo suo, quando la realtà si confonde col sogno.
Lorenzo mi dice poche cose.
La prima, un numero, la velocità con cui ci staccheremo da terra.
L’altra, un’istruzione, che suona più come uno scherzo: a duecento nodi mettilo in piedi…
Non capisco se sia la sua natura da burlone a parlare o se debba davvero fare quello che mi dice. Ma è già troppo tardi per capire.
Le manette avanzano verso la devastante potenza di diciotto tonnellate di spinta.
Io, Lorenzo e la Macchina ne pesiamo decisamente meno.
Le orecchie a malapena avvertono l’aumento del fischio che cambia repentinamente frequenza. Quello che invece non riesco a capire è dove si nasconda il gigante che mi tiene incollato al seggiolino, mentre corriamo già velocissimi lungo la pista.
A malapena ricordo il numero di Lorenzo.
È già ora di “tirare”.
I “digits” della velocità cambiano così in fretta che intuisco solo ora che, forse, quella di Lorenzo non era uno scherzo.
I duecento nodi sono passati da un po’.
La forza dell’abitudine mi ha ricordato la maniglia del carrello.
Sfido la sorte e continuo a tirare.
Lo zenith nell’HUD non mi serve per capire che siamo verticali, come un missile appena staccatosi dalla rampa di lancio.
Guardo dietro e vedo che siamo rimasti a metà pista.
La cosa strana è che siamo 10000 piedi più in alto…
Solo ora sento Lorenzo che ride di gusto e che continua a dirmi “Dude, cosa ti avevo detto?…”
Il resto del volo passa in fretta, tra manovre da “display pilot” di Lorenzo e risate di cuore, di due uomini tornati bambini.
Felici come solo si può essere quando si è davvero in pace, nell’unico elemento in cui ci si sente davvero liberi.
Eppure, è già ora di tornare.
A camminare tra i mortali.
Ma forse, da oggi, lo saremo un po’ meno.
Avvicinandomi nuovamente al piazzale ora avverto qualcos’altro.
Un’euforia collettiva.
Un sentimento più grande di me.
E capisco che, guardando il viso rapito e entusiasta di chi ci sta aspettando, in fondo, oggi, in volo c’eravamo davvero tutti.
Aldo, Peppe, Marco…
Gli avieri, i sottufficiali, gli ufficiali del 4°…
Tutti.
Nessuno è rimasto a terra.
Oggi.
Soprattutto il mio Comandante.
Che mi aspetta, sotto la scaletta, con un sorriso che dice tutto quello che ora si può dire.
E qualcosa in più.
E io, ancora ubriaco di tanto cielo, dico l’unica cosa che si possa dire all’Uomo che ha reso tutto questo possibile:
“grazie Comandante…”